"Dal sacro Monte Kailash, nel Transhimalaya, oltre la linea delle piogge, discesi all'estremo del Capo Comorin, dove le acque di tre antichi mari si congiungono. Ed oggi so che in ambo gli estremi vi sono templi". (Miguel Serrano)

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η κουκουβάγια της Αθηνάς






 
I fioretti di San Francesco

Capitolo VIII

Come andando per cammino san Francesco e frate Leone gli spose quelle cose che sono perfetta letizia.

Venendo una volta san Francesco da Perugia a Santa Maria degli agnoli con frate Leone a tempo di verno, e il freddo grandissimo fortemente il crucciava, chiamò frate Leone, il quale andava innanzi, e disse così: Frate Leone, avvegnadiochè li frati minori in ogni terra dieno grande esemplo di santitade e di buona edificazione, nientedimeno iscrivi e nota diligentemente che non è quivi perfetta letizia, e andando san Francesco più oltre, il chiamò la seconda volta: frate Leone, benchè ’l frate minore allumini i ciechi, e distenda gli attratti, iscacci le demonia, renda l’udire alli sordi e l’andare alli zoppi, il parlare alli mutoli, e ch’è, maggiore cosa, risusciti li morti di quattro dì, scrivi che in ciò non è perfetta letizia. E andando un poco, gridò forte: O frate Leone, se ’l frate minore sapesse tutte le lingue e tutte le scienze e tutte le Scritture, sicchè sapesse profetare e rivelare non solamente le cose future, ma eziandio li segreti delle coscienze e degli animi; scrivi che non è in ciò perfetta letizia. Andando un poco più oltre, san Francesco chiamò ancora forte: O frate Leone, pecorella di Dio, benchè il frate minore parli con lingua d’angelo, e sappia i corsi delle stelle e le virtù delle erbe; e fossonli rivelati tutti li tesori della terra, e cognoscesse le virtù degli uccelli, e de’ pesci, e di tutti gli animali, e degli uomini, e degli alberi, e delle pietre, e delle radici, e dell’acque, iscrivi, che non è in ciò perfetta letizia. E andando ancora un pezzo, san Francesco chiamò forte: frate Leone, benchè il frate minore sapesse sì bene predicare che convertisse tutti gl’infedeli alla fede di Cristo; scrivi che non è ivi perfetta letizia. E durando questo modo di parlare bene di due miglia, frate Leone, con grande ammirazione il domandò e disse: Padre, io ti priego dalla parte di Dio che tu mi dica, dove è perfetta letizia. E san Francesco sì gli rispuose: Quando noi saremo a Santa Maria degli angeli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo, e infangati di loto, e afflitti di fame, e picchieremo la porta dello luogo; e ’l portinaio verrà adirato, e dirà: Chi siete voi? e noi diremo: Noi siamo due de’ vostri frati, e colui dirà: Voi non dite vero; anzi siete due ribaldi, che andate ingannando il mondo e rubando le limosine de’ poveri; andate via: e non ci aprirà, e faracci istare di fuori alla neve e all’acqua col freddo e colla fame, insino alla notte, allora se noi tanta ingiuria, e tanta crudeltate, e tanti commiati sosterremo pazientemente senza turbarcene e senza mormorare di lui; e penseremo umilmente e caritativamente che quello portinaio veramente ci cognosca, e che Iddio il fa parlare contra a noi; frate Leone, iscrivi, che qui è perfetta letizia. E se noi perseveriamo picchiando, ed egli uscirà fuori turbato, e come gaglioffi importuni ci caccerà con villanie e con gotate dicendo: Partitevi quinci, ladroncelli vilissimi, andate allo spedale, che qui non mangerete voi, nè albergherete; se noi questo sosterremo pazientemente e con allegrezza e con amore; frate Leone, scrivi che qui è perfetta letizia. E se noi pur costretti dalla fame, e dal freddo, e dalla notte, più picchieremo, e pregheremo per l’amore di Dio con grande pianto che ci apra e mettaci pure dentro; e quelli più scandolezzato dirà: Costoro sono gaglioffi importuni; io gli pagherò bene come sono degni: e uscirà fuori con uno bastone nocchieruto, e piglieracci per lo cappuccio, e gitteracci in terra, e involgeracci nella neve, e batteracci a nodo a nodo con quello bastone: se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali dobbiamo sostenere per suo amore; o frate Lione, iscrivi che qui e in questo è perfetta letizia; e però odi la conclusione, frate Leone. Sopra tutte le grazie e i doni dello Spirito Santo, le quali Cristo concede agli amici suoi, si è di vincere sè medesimo, e volentieri per lo amore di Cristo sostenere pene, ingiurie ed obbrobrii e disagi; imperocchè in tutti gli altri doni di Dio noi non ci possiamo gloriare, perocchè non sono nostri, ma di Dio; onde dice l’Apostolo: Che hai tu, che tu non abbi da Dio? e se tu l’hai avuto da lui, perchè te ne glorii come se tu l’avessi da te? Ma nella croce della tribolazione e della afflizione ci possiamo gloriare, perocchè questo è nostro; e perciò dice l’Apostolo: Io non mi voglio gloriare, se non nella croce di nostro Signore Gesù Cristo.

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Alcune considerazioni
sulla teoria dei cicli cosmici


(René Guénon)

     Ci è stato chiesto talvolta, a proposito degli accenni che siamo stati talvolta indotti a fare in diverse occasioni alla dottrina indù dei cicli cosmici ed a quelle equivalenti che si ritrovano in altre tradizioni, di darne, se non una esposizione completa, almeno un quadro d'insieme, a grandi linee.
     Per la verità, ci sembra questo un compito pressoché impossibile, non solo per la intrinseca complessità dell'argomento, ma anche e soprattutto per le grandi difficoltà che si incontrano ad esprimere questi concetti in una lingua europea, in maniera tale, da renderli comprensibili alla mentalità occidentale attuale, completamente disabituata ad un tal genere di considerazioni. Tutto ciò che si può fare, a nostro avviso, è cercare di chiarire certi punti, con delle osservazioni come quelle che seguono, alle quali non si può chiedere altro che di fornire delle semplici indicazioni circa il senso della dottrina in questione, piuttosto che darne una spiegazione esauriente.
     Considereremo un ciclo, nell'accezione più ampia del termine, come la rappresentazione del processo di sviluppo di uno stato qualsiasi della manifestazione, oppure, se si tratta di cicli minori, di qualcuna delle modalità più o meno limitate e particolari di tale stato. D'altronde, in virtù della legge di corrispondenza che collega tutte le cose nell' Esistenza universale, vi è sempre e necessariamente una certa analogia sia fra i diversi cicli dello stesso ordine, sia tra i cicli principali e le loro suddivisioni secondarie. E' quindi lecito, parlandone, impiegare in un unico modo di espressione, anche se questo spesso dovrà essere inteso solo simbolicamente, l'essenza stessa di ogni simbolismo fondandosi appunto sulle corrispondenze e sulle analogie che realmente esistono nella natura delle cose. Alludiamo qui soprattutto alla forma cronologica assunta dalla dottrina dei cicli: Poiché il Kalpa rappresenta lo sviluppo totale di un mondo, vale a dire uno stato o grado dell'esistenza universale, è evidente che si potrà parlare letteralmente della durata di un Kalpa, valutata in base ad una qualsiasi unità di misura del tempo, soltanto se si tratterà di un Kalpa che si riferisce ad uno stato in cui il tempo è una della condizioni determinanti, quale è propriamente il nostro mondo. In ogni altro caso, tutte le considerazioni di durata e di successione non potranno avere che un valore meramente simbolico e dovranno essere trasposte analogicamente, la successione temporale diventando allora solo una immagine della concatenazione, insieme logica e ontologica, di una serie extra-temporale di cause ed effetti. Tuttavia, poiché il linguaggio umano non può esprimere direttamente condizioni diverse da quelle proprie del nostro stato, un simbolismo del genere è per ciò stesso sufficientemente giustificato e dev'essere considerato perfettamente naturale e normale.
     Non abbiamo intenzione, in questa sede, di occuparci dei cicli più ampi, come i Kalpa; ci limiteremo a quelli che si svolgono entro il nostro Kalpa, cioè ai Manvantara e alle loro suddivisioni. A questo livello, i cicli presentano un carattere sia cosmico che storico, poiché riguardano particolarmente l'umanità terrestre, pur essendo nello stesso tempo collegati a tutti gli avvenimenti che si producono nel nostro mondo al di fuori di essa. In ciò non vi è nulla di sorprendente, perché il considerare la storia dell'uomo come isolata in qualche modo da tutto il resto è un'idea esclusivamente moderna, in netta opposizione con l'insegnamento di tutte le tradizioni, che, al contrario, sono unanimi nell'affermare l'esistenza di una correlazione necessaria e costante tra l'ordine cosmico e quello umano.
     I Manvantara, o ere dei successivi Manu, sono quattordici e formano due serie settenarie, di cui la prima comprende i Manvantara trascorsi e quello presente, la seconda i Manvantara futuri. Queste due serie, di cui, come abbiamo visto, una si riferisce al passato, con il presente che ne è la risultante immediata, e l'altra al futuro, possono essere messe in corrispondenza con quelle dei sette Swarga e dei sette Patala, i quali rappresentano rispettivamente l'insieme degli stati superiori ed inferiori allo stato umano, se ci si pone dal punto di vista della gerarchia dei gradi dell' Esistenza ovvero della manifestazione universale, o l'insieme di quelli anteriori e posteriori a questo stesso stato, nel caso invece che ci si ponga dal punto di vista del concatenamento causale dei cicli, descritto simbolicamente, come sempre, mediante l'analogia di una successione temporale. Quest'ultima angolazione è evidentemente quella che qui più interessa: essa infatti ci consente di vedere, all'interno del nostro Kalpa, in virtù della relazione analogica sopra menzionata, un'immagine ridotta di tutto l'insieme dei cicli della manifestazione universale e, in questo senso, si potrebbe dire che la successione dei Manvantara rappresenta in certo qual modo un riflesso degli altri mondi nel nostro. D' altronde, si può ancora notare, a conferma di ciò, che le parole Manu e Loka sono entrambe designazioni simboliche del numero 14; parlare a questo proposito di una semplice coincidenza equivarrebbe a dar prova della completa ignoranza delle ragioni profonde, inerenti ad ogni simbolismo tradizionale. Si può ravvisare ancora un'altra correlazione con i Manvantara, quella relativa ai sette Dwipa o regioni in cui si divide il nostro mondo. Infatti, sebbene questi siano rappresentati, conformemente al senso proprio della parola che li designa, coma altrettante isole e continenti distribuiti in un certo modo nello spazio, bisogna guardarsi da un'interpretazione strettamente letterale, che li identifichi senz'altro alle diverse zone della terra attualmente conosciuta; essi, in effetti non emergono simultaneamente, bensì successivamente, il che vuol dire che uno solo di essi si manifesta nel dominio sensibile nel corso di un certo periodo. Se questo periodo è un Manvantara, si deve concludere che ogni Dwipa dovrà apparire due volte nel Kalpa, ossia una volta in ciascuna delle due serie settenarie di cui dicemmo poc'anzi; e dal rapporto fra queste due serie, che si corrispondono inversamente, come avviene in tutti i casi simili, e in particolare per quelle degli Swarga e dei Patala, si può dedurre che l'ordine d' apparizione dei Dwipa dovrà ugualmente, nella seconda serie, essere l'inverso di quello che è stato nella prima. Si tratta, in definitiva, di differenti stati del mondo terrestre, piuttosto che di regioni vere e proprie. Il Jambu-Dwipa rappresenta in realtà l' intera superficie terrestre nel nostro stato attuale; e se di esso si dice che si estende a sud del Meru, cioè della montagna assiale intorno alla quale si compiono le rivoluzioni del nostro mondo, è proprio perché, essendo il Meru simbolicamente identico al Polo Nord, effettivamente, rispetto a questo, tutte le terre sono situate a sud. Per dare maggiori spiegazioni sull'argomento, bisognerebbe poter sviluppare il simbolismo delle direzioni dello spazio, secondo cui sono ripartiti i Dwipa, come pure i rapporti di corrispondenza esistenti tra questo simbolismo spaziale e il simbolismo temporale sul quale poggia tutta la dottrina dei cicli; ma poiché non ci è possibile inoltrarci in queste considerazioni che da sole richiederebbero un intero volume, dobbiamo accontentarci di queste sommarie indicazioni, che, del resto, potranno facilmente completare per proprio conto coloro che hanno già qualche conoscenza in materia.
     Queste considerazioni concernenti i sette Dwipa trovano poi conferma nei dati concordanti di altre tradizioni, nelle quali si parla ugualmente di sette terre, segnatamente nell'esoterismo islamico e nella Kabbala ebraica: in quest'ultima, le sette terre, pur essendo raffigurate esteriormente come altrettante ripartizioni della terra di Canaan, sono poste in relazione con i regni dei sette re di Edom, i quali corrispondono manifestamente ai sette Manu della prima serie. Queste terre, inoltre, sono tutte comprese nella Terra dei Viventi, che rappresenta lo sviluppo completo del nostro mondo, realizzato in modo permanente nel suo stato principale. Si può rilevare qui la coesistenza di due punti di vista: quello della successione, che si riferisce alla manifestazione in se stessa, e quello della simultaneità, che si riferisce al suo principio, o a ciò che si potrebbe chiamare il suo archetipo. In fondo, la corrispondenza di questi due punti di vista equivale, in certo qual modo, a quella tra simbolismo temporale e simbolismo spaziale, cui abbiamo già accennato parlando dei Dwipa della tradizione indù.
     Nell'esoterismo islamico le sette terre rappresentano, forse più esplicitamente, altrettante tabaqat o categorie dell'esistenza terrestre, che coesistono o si compenetrano a vicenda, di cui soltanto una può essere attualmente colta dai sensi, mentre le altre sono allo stato latente e soltanto eccezionalmente possono essere percepite, per di più in speciali condizioni. Anche in questo caso, esse si manifestano esteriormente, una per volta, nei diversi periodi che si succedono nel corso della intera durata di questo mondo. D'altra parte, ognuna delle sette terre è retta da un Qutb o Polo, che corrisponde chiaramente al Manu del periodo durante il quale la rispettiva terra si manifesta. Questi sette Aqtab sono subordinati al Polo supremo, così come i diversi Manu lo sono all' Adi-Manu o Manu primordiale; ma, in ragione della coesistenza delle sette terre, esercitano anche, sotto un certo aspetto, le loro funzioni in modo permanente e simultaneo. Si noti, per inciso, che la designazione Polo è strettamente legata al simbolismo polare del Meru menzionato poco sopra, il quale, nella tradizione islamica, ha per esatto equivalente il monte Qaf. Aggiungiamo che i sette Poli terrestri vengono considerati come il riflesso dei sette Poli celesti, che presiedono rispettivamente ai sette cieli planetari; e questo fa naturalmente pensare ad una corrispondenza con gli Swarga della dottrina indù, dimostrando la perfetta concordanza che esiste, al riguardo, fra le due tradizioni.
     Consideriamo ora le suddivisioni di un Manvantara, cioè i quattro Yuga. Faremo anzitutto notare, senza insistervi troppo, che tale divisione quaternaria di un ciclo è suscettibile di molteplici applicazioni, e che in effetti la si ritrova in molti cicli particolari: come esempio, possiamo citare le stagioni dell'anno, le settimane del mese lunare, le quattro età della vita umana; ed anche qui vi è corrispondenza con il simbolismo spaziale, riferito, in tal caso, principalmente ai quattro punti cardinali. D'altro canto, si è spesso rilevata la manifesta equivalenza dei quattro Yuga con le quattro età dell'oro, dell'argento, del rame e del ferro, quali furono conosciute dell'antichità greco-latina: in entrambe le rappresentazioni, ogni periodo è ugualmente caratterizzato da un processo di degenerazione, rispetto al precedente. Questo processo,che si oppone nettamente all'idea di quale la concepiscono i moderni, si spiega semplicemente con il fatto che ogni svolgimento ciclico, vale a dire ogni processo di manifestazione, in cui è implicito necessariamente un allontanamento graduale dal principio, rappresenta realmente una discesa: è questo, del resto, il significato reale della caduta nella tradizione giudaico-cristiana.
     La progressiva degenerazione da uno Yuga all' altro si accompagna ad una diminuzione della rispettiva durata, la quale è considerata incidere sulla lunghezza della vita umana; ma quel che più importa, da questo punto di vista, è il rapporto tra le rispettive durate dei diversi periodi. Se la durata complessiva del Manvantara è rappresentata dal numero 10, quella del Krita-Yuga o Satya-Yuga lo sarà dal 4, quella del Treta-Yuga dal 3, quella del Dwapara-Yuga dal 2 e quella del Kali-Yuga dall'1. Questi valori corrispondono altresì al numero delle zampe del toro simbolico di Dharma che si raffigurano poggiate sulla terra durante gli stessi periodi.
     La ripartizione del Manvantara si effettua quindi secondo la formula 10= 4+3+2+1 che è l'inverso della Tetraktys pitagorica: 1+2+3+4=10. Quest'ultima formula rappresenta ciò che nel linguaggio dell'ermetismo occidentale viene denominato la circolatura del quadrato, e l'altra il problema inverso della quadratura del cerchio, che esprime appunto la relazione tra la fine e l'inizio del ciclo, cioè l'integrazione del suo sviluppo totale. E' questo un simbolismo aritmetico e geometrico ad un tempo, che qui possiamo soltanto indicare di sfuggita, per non allontanarci troppo dall'argomento principale. Quanto alle cifre indicate in diversi testi, in relazione alla durata del Manvantara e, conseguentemente, a quella degli Yuga, bisogna evitare di considerarle cronologicamente nel significato ordinario della parola, vale a dire come se esprimessero numeri di anni, da prendersi alla lettera. E' questo d'altronde il motivo per cui le apparenti variazioni tra i dati non implicano in fondo una reale contraddizione. Per le ragioni che esporremo in seguito, la sola di queste cifre da prendere in considerazione è 4.320, dovendosi escludere i vari zeri che si fanno seguire a questo numero, e che verosimilmente sonno destinati soprattutto a trarre in inganno coloro che volessero dedicarsi a certi calcoli. Tale precauzione, a prima vista, può sembrare strana, ma poi si può facilmente comprendere: se la effettiva durata del Manvantara fosse nota e se, inoltre, fosse possibile determinare con esattezza il suo punto di partenza, chiunque potrebbe senza difficoltà arrivare a dedurre la previsione di particolari avvenimenti futuri; ora, nessuna tradizione ortodossa ha mai incoraggiato studi che permettessero all'uomo di arrivare a conoscere l'avvenire, in misura più o meno ampia, tale conoscenza presentando praticamente molti più inconvenienti che vantaggi reali. E' questo, dunque, il motivo per cui il punto di partenza e la durata del Manvantara sono stati sempre più o meno accuratamente dissimulati, sia aggiungendo o sottraendo un determinato numero di anni ai dati reali, sia moltiplicando o dividendo la durata dei periodi ciclici in modo da mantenere soltanto le loro esatte proporzioni; per di più, diremo che certe corrispondenze, per motivi analoghi, talvolta sono state perfino invertite.
     Se la durata del Manvantara è data dal numero 4.320, quelle dei quattro Yuga saranno date rispettivamente da 1.728, 1.296, 864, 432; ma per quale numero si dovranno moltiplicare queste cifre per ottenere una durata in anni? Si può facilmente notare come tutti questi numeri ciclici siano in rapporto diretto con la divisione geometrica del cerchio: così 4.320= 360*12; del resto, non vi è nulla di arbitrario o di meramente convenzionale in questa divisione, poiché, a causa della corrispondenza tra l'aritmetica e la geometria, è normale che tale divisione si effettui secondo multipli di 3, 9, 12, mentre la divisione decimale è quella che propriamente si addice alla linea retta. Questa osservazione, sebbene fondamentale, non permetterebbe tuttavia di andare molto lontano nella determinazione dei periodi ciclici, se non si sapesse che la base principale di questi, nell'ordine cosmico, è il periodo astronomico della precessione degli equinozi, la cui durata è di 25.920 anni, per cui lo spostamento dei punti equinoziali è di un grado ogni 72 anni. Questo numero 72 è precisamente un sottomultiplo di 4.320= 72*60, e 4.320 è a sua volta un sottomultiplo di 25.920= 4.320*6; e il fatto che per la precessione degli equinozi si trovino i numeri connessi alla divisione del cerchio costituisce una prova ulteriore del carattere veramente naturale di questa divisione. Ma il problema che ora si pone è il seguente: quale multiplo o sottomultiplo del suddetto periodo astronomico corrisponde effettivamente alla durata del Manvantara?
     Il periodo che nelle diverse tradizioni appare con maggior frequenza non è tanto quello della precessione degli equinozi quanto la sua metà: è questo in effetti il periodo che corrisponde al grande anno dei Persiani e dei Greci, spesso calcolato approssimativamente in 12.000 o 13.000 anni, e la cui esatta durata è di 12.960 anni. Data l'importanza del tutto particolare attribuita a tale periodo, si deve presumere che il Manvantara debba comprendere un numero intero di grandi anni: quanti precisamente? A questo proposito, al di fuori della tradizione indù, troviamo perlomeno un'indicazione precisa, abbastanza plausibile da poter essere accettata, questa volta alla lettera: presso i Caldei, la durata del regno di Xisuthros, che è manifestamente identico a Vaivaswata, il Manu dell'era attuale, era fissata in 64.800 anni, cioè esattamente cinque grandi anni. Per inciso, facciamo notare che il numero 5, essendo quello dei bhutas o elementi del mondo sensibile, deve avere necessariamente una speciale importanza dal punto di vista cosmologico, il che tende a confermare la fondatezza di una tale valutazione; si potrebbe anzi ravvisare una certa correlazione tra i cinque bhutas e i cinque grandi anni successivi di cui si tratta, tanto più che nelle antiche tradizioni dell'America centrale si trova una evidente connessione fra gli elementi e particolari periodi ciclici; è questo però un problema che richiederebbe una disamina più approfondita. Comunque sia, se è questa effettivamente la durata del Manvantara, e se si continua a prendere come base il numero 4.320, che è esattamente un terzo del grande anno, è dunque per 15 che questo numero dovrà essere moltiplicato, per avere la durata del Manvantara. I cinque grandi anni saranno naturalmente ripartiti nei quattro Yuga in modo diseguale, ma secondo rapporti semplici: il Krita-Yuga ne conterrà 2, il Treta-Yuga 1 e mezzo; il Dwapara-Yuga 1 e il Kali-Yuga mezzo; questi numeri sono precisamente la metà di quelli che avevamo trovato, quando consideravamo la durata del Manvantara rappresentata dal numero 10. Calcolati in anni ordinari, i quattro Yuga avranno una durata rispettivamente di 25.920, 19.440, 12.960, e 6.480 (anni), per un totale di 64.800 anni. Come si vede, queste cifre si mantengono in limiti perfettamente verosimili, potendo ben corrispondere alla età reale della presente umanità terrestre.
     Non andremo oltre con queste considerazioni, poiché, per quanto concerne il punto di partenza del nostro Manvantara, e, conseguentemente, l'esatto punto del suo corso, nel quale ci troviamo attualmente, non è nostra intenzione arrischiarci a determinarli. Sappiamo già, per i riferimenti che ci danno tutte le tradizioni, di essere ormai da tempo nel Kali-Yuga; possiamo aggiungere, senza tema di errori, che siamo anzi in una fase avanzata di esso, fase che viene descritta nei Purana con particolari che rispondono in maniera davvero sorprendente ai caratteri della epoca attuale; ma non sarebbe forse imprudente voler aggiungere altre precisazioni, ed inoltre ciò non corrisponderebbe inevitabilmente ad una di quelle predizioni tanto avversate, non, senza motivo, dalla dottrina tradizionale?

(da alchemica.it)
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 Sri Aurobindo

Sulla musica e la poesia

 
La Musica è superiore alle altre Arti ?


Non so cosa dire sull’argomento che mi proponete – la superiorità della musica sulla poesia – poiché il mio apprezzamento della musica è incorporeo e inesprimibile, laddove posso scrivere facilmente e con una buona conoscenza della poesia. Ma è davvero necessario stabilire una scala di grandezza fra due grandi arti, quando ciascuna ha la sua propria grandezza e può a modo suo toccare gli estremi dell’Ananda estetico ? La musica, senza dubbio, va più vicino all’infinito e all’essenza delle cose, poiché essa si affida interamente al veicolo etereo, shabda, (l’architettura, a tratti, può fare qualcosa di simile, all’altro estremo, persino nel suo imprigionamento nella materia); ma la pittura e la scultura si prendono la loro rivincita liberando la forma visibile nell’estasi, mentre la poesia , sebbene non possa fare con il suono ciò che fa la musica, può tuttavia produrre un’armonia polifonica, una rivelazione di suono che dà le ali alla creazione per mezzo della parola e le permette di librarsi e fa aleggiare nell’aria vivide suggestioni di forma e di colore – il che le dà in maniera molto sottile il potere di tutte le arti. Chi può decidere tra tali qualità o essere giudice di queste divinità ?
Ho paura di dovervi deludere. Non ho intenzione di sottoporre le divinità a un esame competitivo e dare a una il posto più alto e alle altre quello più basso. Che idea ! Ciascuna ha il suo posto sulla vetta e che necessità c’è, quindi, di metterle in conflitto tra di loro ? È una sorta di giudizio di Paride quello che volete chiedermi ? Bene, ma cosa ne è stato di Paride e di Troia ? Volete che io dia la corona o la mela alla musica e faccia adirare le divinità della pittura, della scultura, dell’architettura, dell’ornamento, cioè tutte le Nove Muse ?
Il vostro giudizio di merito – riguardo al potere di attrazione universale – è sbagliato. Non so se corrisponde al vero, in primo luogo. Alcuni tipi di suono definito musica affascinano chiunque, ma davvero la grande musica ha un fascino universale ? E – parlando di arti –più gente va al teatro o legge racconti di quanta non ne vada all’opera o a un concerto. Cosa dire dunque della superiore universalità della musica, persino nel significato più comune di universalità ? Le “Barrack Room Ballads” di Rudyard Kipling esercitano un fascino universale maggiore di quello di Milton o Keats – per non dire di scrittori come Blake o Francis Thompson; una banda sul molo in un luogo di villeggiatura estivo sarà gradita a più gente di una grande esecuzione musicale dell’orchestra diretta da Sir Thomas Beecham. In un mondo di dei potrebbe essere vero che le cose più alte esercitino il fascino più universale, ma qui, in un mondo di uomini e animali…di solito sono le cose inferiori che esercitano un fascino più diffuso se non del tutto universale. D’altro canto, il sistema opposto che voi suggerite (rovesciando le cose – il fascino meno universale e più difficile è proprio dell’arte più alta) avrebbe anch’esso i suoi rischi. A questo punto dovremmo riconoscere che pittori astratti e cubisti abbiano raggiunto le più alte vette dell’arte, eguagliati soltanto dai poeti modernisti molto in voga, dei quali è stato detto che le loro opere non sono per nulla lette o comprese dal pubblico, ma sono lette e comprese solo dal poeta stesso e sono lette senza essere capite dai suoi amici e ammiratori personali.
Quando parlate di fascino diretto, forse parlate di qualcosa di vero. La tecnica non c’entra – sebbene per un apprezzamento o un giudizio competente e completo si debba conoscere la tecnica, non soltanto in musica e pittura, per le quali è più difficile, ma anche per la poesia e l’architettura. Si tratta di qualcos’altro, non il genere di giudizio di cui state parlando. Forse è vero che la musica è in relazione con l’intuizione diretta e il sentimento, senza quasi nessuna necessità di usare la mente pensante con le sue concezioni fortemente limitanti, come un mediatore che si auto–impone, mentre la pittura e la scultura ne hanno bisogno e la poesia ancora di più. Da questo punto di vista la musica verrebbe al primo posto, seguirebbe l’architettura, poi la scultura e la pittura e l’ultima sarebbe la poesia. Sono consapevole del fatto che Houseman postula il non–sense come l’essenza della pura poesia e considera il suo fascino del tutto diretto – non sull’anima, ma su un qualche punto all’altezza dello stomaco. Ma allora non c’è quasi nessuna vera poesia in questo mondo e il poco che c’è si confonde con una almeno omeopatica dose di significato intellettuale. Ma se ammettessi la sua tesi sull’eccellenza da attribuirsi all’impatto immediato, mi avventurerei in acque pericolose. Poiché anche la pittura moderna, diventata o cubista o astratta, sostiene di essersi liberata dalla rappresentazione mentale e di avere applicato nell’arte il metodo della musica, essa non dipinge gli oggetti ma la verità che sta dietro gli oggetti – per mezzo dell’uso della pura linea, del colore e della forma geometrica, che è la base di tutte le forme, o per mezzo di figure che non sono rappresentazioni ma significati. Ad esempio un pittore moderno che voglia farvi un ritratto dipingerà in cima un orologio circondato da tre triangoli; sotto di essi un caos di rombi e in basso due ampolle di legno per rappresentare i vostri piedi; e scriverà sotto questo straordinario disegno “Ritratto di N.”. Forse la vostra anima avrà un sobbalzo in risposta a tale diretto fascino e riconoscerà subito la verità dietro l’oggetto, dietro il vostro sé fisico scomparso – voi riconoscerete il vostro essere psichico o il vostro Atman o per lo meno il vostro essere interiore fisico o vitale. Ma forse potrebbe non essere così. La poesia sembra anche andare nella stessa direzione, usando gli stessi mezzi – spostandosi dalla mente alla profondità della vita o, come potrebbe dire il profano, raggiungendo la verità e la bellezza tramite il brutto e l’incomprensibile. Da ciò forse dedurrete che il tentativo della pittura e della poesia, cosa che soltanto la musica può fare facilmente e direttamente senza queste acrobazie, è futile perché contrario alla loro natura – il che prova la vostra tesi che la musica è l’arte più elevata, perché il suo fascino sull’anima e sui sentimenti è più diretto. Forse – o forse no; come dicono i Jainiti: syâd vâ na syâd vâ.
Ho scritto così tanto, vedete, per dire nulla – o almeno per sottrarmi al vostro tentativo di mettermi in un dilemma imbarazzante.
…O dovremmo metterla in questo modo: “Ognuna della grandi arti ha il suo proprio fascino e la sua propria maniera di affascinare e ognuna, a modo suo, è superiore a tutte le altre” ? Sì, dovremmo vedere così le cose.

 
Sull’importanza della musica nell’educazione

Platone, nella sua Repubblica, ha trattato con enfasi straordinaria l’importanza della musica nella educazione, poiché il carattere di un popolo è proprio come la musica che esso apprezza. L’importanza della pittura e della scultura è appena minore. La mente è profondamente influenzata da ciò che essa vede e se l’occhio è allenato fin dalla fanciullezza alla contemplazione e alla comprensione della bellezza e dell’armonia, del giusto accostamento di linee e colori, i gusti, le abitudini e il carattere verranno spontaneamente plasmati a seguire una simile legge di bellezza, armonia e disposizione nella vita dell’uomo adulto.
Un risultato simile è prodotto sulle emozioni dallo studio dell’arte bella o nobile. Abbiamo parlato della purificazione del cuore, la chitta Suddhi, che Aristotele considerava il compito essenziale della poesia, ed abbiamo osservato che essa si ha nella poesia tramite il distaccato e disinteressato godimento degli otto rasa o forme di estetismo emotivo che rendono la vita immune dalla turbolenza delle più basse passioni egoistiche. La pittura e la scultura lavorano nella stessa direzione con mezzi diversi. L’Arte talvolta usa gli stessi mezzi della poesia, ma non può farlo sino allo stesso punto, poiché non ha il movimento della poesia; essa è fissa, tuttavia, esprime soltanto un dato momento, un dato punto nello spazio e non può muoversi più liberamente attraverso il tempo e lo spazio. Ma è proprio questa immobilità, questa calma, questa fissità che dà all’Arte il suo distinto valore. La poesia suscita le emozioni e dà a ciascuna la sua propria delizia. L’Arte calma le emozioni e insegna loro il piacere di una soddisfazione contenuta e limitata – questa in verità è la caratteristica che i Greci, una nazione di artisti, molto più artisti che poeti, tentarono di infondere nella loro poesia. La musica rende più profonde le emozioni e le armonizza fra di loro. Insieme la musica, l’arte e la poesia costituiscono un’educazione perfetta per l’anima; esse rendono e mantengono i suoi movimenti purificati, auto–controllati, profondi ed armoniosi. Esse, dunque, sono agenti che non possono essere dimenticati senza danno dall’umanità nella sua progressiva evoluzione o degradate alla pura soddisfazione di piaceri sensuali che danneggiano il carattere anziché formarlo. Esse sono, se usate in maniera corretta, grandi forze educatrici, costruttive e civilizzatrici.
…Ma l’immensa forza educativa della musica, della scultura e della pittura non è stata giustamente riconosciuta. Sono state viste come sentieri collaterali della mente umana, belli e interessanti, ma non necessari e dunque riservati a pochi. Tuttavia l’impulso universale di gioire della bellezza e del fascino del suono, di guardare e vivere circondati da quadri, colori, forme, dovrebbero aver messo in guardia l’umanità circa la superficialità e l’ignoranza di un tale modo di considerare queste eterne e importanti occupazioni della mente umana. L’impulso al quale è stato negato un giusto allenamento e l’auto–purificazione si è consumato nel triviale, gaudente, sensuale, basso o volgare, invece di spingere l’uomo verso l’alto per mezzo del suo potente aiuto nell’evocare ciò che è migliore e più alto nell’intelletto così come nel carattere, l’emozione e il godimento estetico e la regola di vita e di comportamento. È difficile valutare il detrimento dovuto ad un livello basso e abbassante di godimento al quale le tendenze artistiche sono condannate nella maggior parte dell’umanità.

Eccellenza della Musica e Cultura generale

Non ho visto le osservazioni di cui si parla, non credo che avere una buona cultura generale significhi automaticamente eccellere nella musica. La musica è un dono indipendente e non si può dire che se due persone hanno talento musicale quella con una buona cultura generale eccellerà di più nella musica. Non sarebbe così in nessuna altra arte. Ma forse si intendeva qualcosa di diverso, forse che c’è una certa disposizione all’eccellenza che rende possibile una cultura generale ?
È soltanto in questo senso che ciò potrebbe essere vero. La poesia di Shakespeare, per esempio, è quella di un uomo con una vivida e sfaccettata risposta alla vita; essa dà l’impressione di una multiforme conoscenza delle cose, ma era una conoscenza presa dalla vita in sé. Milton ottiene certe sfumature dai suoi studi e dalla sua conoscenza, ma in nessuno dei due il genio, l’eccellenza poetica, è dovuta alla cultura, ma c’è una certa sfumatura in Milton che non ci sarebbe potuta essere altrimenti, e che non c’è in Shakespeare. Essa non dà nessuna superiorità poetica all’uno rispetto all’altro.

Differenze tra canzone e poesia

No, una canzone non è un tipo di poesia, o almeno non ha bisogno di esserlo. Ci sono belle canzoni che non sono per nulla poesie. In Europa gli scrittori dei libretti operistici non vengono classificati come poeti. In Asia il tentativo di unire la qualità della canzone con il valore poetico è più diffusa. Anche nell’antica Grecia, la poesia lirica era spesso composta con l’intenzione di metterla in musica. E tuttavia la poesia e lo scrivere canzoni, sebbene possano andare insieme, sono due arti diverse, poiché lo scopo e il principio della loro costruzione non è lo stesso. La differenza non è che la poesia debba essere capita e la musica o la canzone debbano essere sentite (anubhuuti); che l’una debba raggiungere l’anima attraverso l’esatto senso scritto e l’altra attraverso la suggestione del suono e il suo richiamarsi a qualche corda interna dentro di noi. Se voi semplicemente capite il contenuto intellettuale di una poesia, le sue parole ed idee, non avete affatto apprezzato realmente la poesia ed una poesia che contenga soltanto quello e nient’altro non è vera poesia. Una vera poesia contiene qualcosa di più che deve essere sentito proprio come si sente la musica e che è la sua parte più importante ed essenziale. La poesia ha un ritmo, così come ce l’ha la musica, sebbene di un tipo diverso, ed è il ritmo che permette a questo qualcos’altro di manifestarsi per mezzo delle parole. Le parole in se stesse non lo contengono p non possono manifestarlo affatto e questo viene dimostrato dal fatto che le stesse parole scritte in un ordine diverso e senza ritmo, o senza il ritmo adatto, non avrebbero su di voi lo stesso effetto. Questo qualcos’altro è un contenuto interiore o una suggestione, un sentire dell’anima o un’esperienza dell’anima, un sentimento o un’esperienza di vita, un’emozione mentale, visione o esperienza (non semplicemente un’idea), ed è soltanto quando capite questo e riproducete alcune vibrazioni di quell’esperienza – se non l’esperienza stessa in voi – che avete realizzato ciò che la poesia può darvi, non altrimenti.
La differenza reale fra una poesia e una canzone è che la canzone è scritta con l’intenzione di essere adattata al ritmo musicale, mentre una poesia è scritta con l’orecchio che ascolta il necessario ritmo poetico o musica delle parole. Questi due ritmi sono del tutto diversi: ecco perché una poesia non può essere trasformata in musica a meno che non sia stata scritta tenendo in considerazione entrambi i tipi di ritmo; o a meno che, per un caso fortuito, essa non abbia un movimento che renda facile, o almeno possibile, metterla in musica. Questo succede spesso alla poesia lirica, meno spesso ad altri generi. Una canzone ha anche di solito la particolarità di avere un contenuto molto semplice, soltanto l’espressione di un’idea, di un sentimento ed essa lascia alla musica il compito di sviluppare i suoi valori inespressi. Tuttavia questa reticenza non è spesso notata e alle parole viene talvolta attribuita un’importanza maggiore.

Ritmo e movimento

Il ritmo è la prima necessità dell’espressione poetica, perché è il movimento del suono che trasporta sulla sua onda il movimento del pensiero nella parola, ed è il suono–immagine musicale che permette in buona parte di completare, estendere, apprezzare sottilmente e approfondire la prima impressione o l’impressione emozionale o vitale, e trasportare il senso che le sta dietro fino all’espressione di ciò che è intellettualmente inesprimibile – questo è sempre il potere peculiare della musica. Ma questo è soltanto l’aspetto tecnico, il mezzo fisico che produce l’effetto; non è l’intelligenza dell’artista o l’orecchio fisico che è al lavoro, ma qualcosa dentro che cerca di far emergere un’eco di armonie nascoste, un segreto di infinità ritmiche dentro di noi. Non è una produzione dell’intelletto distintivo o del senso estetico ciò che il poeta ha conseguito, ma un’operare dello spirito dentro di sé per esternare qualcosa dell’onda delle eterne profondità. Le altre facoltà sono lì al loro posto, ma il direttore del movimento orchestrale è l’anima che emerge per conseguire la sua opera per mezzo dei suoi metodi più alti e non analizzabili. Il risultato è qualcosa che è quanto di più vicino alla musica senza parole che la musica delle parole sia in grado di conseguire, e con lo stesso potere di vita dell’anima, di emozione dell’anima, di profondo significato sopra–intellettuale (supra–intellectual). In queste armonie e melodie più alte il ritmo metrico è sollevato da quello spirituale; è riempito o talvolta sembra afferrato e portato via in una musica che ha davvero un altro segreto movimento spirituale.

Significato del ritmo metrico nel mantra

Questa è l’intensità del movimento poetico dal quale sorge la più grande possibilità di espressione poetica. È quando il movimento metrico rimane come base, ma racchiude e contiene, o è esso stesso contenuto, immerso in un elemento di musica più grande, che lo supera e tuttavia fa emergere tutte le sue possibilità, che la musica del Mantra si rende udibile. È il trionfo dello spirito sulle difficoltà e limitazioni del suo strumento fisico. Il suo ascoltatore sembra essere lo spirito eterno del quale parlano le Upanishad dicendolo l’orecchio dell’orecchio, colui che ascolta tutto ciò che s può udire; e “al di là delle instabilità delle parole e del discorso” c’è l’inevitabile armonia del suo proprio pensiero e la visione che egli sta ascoltando.

La musica può essere ammessa come una parte della vita dello Yoga?

L’arte, la poesia e la musica non sono yoga, non sono in se stesse cose spirituali, non più di quanto lo siano la filosofia o la scienza. Qui si nasconde un’altra strana incapacità dell’intelletto moderno, la sua incapacità di distinguere tra mente e spirito, la sua spiccata tendenza a confondere gli idealismi menali, morali ed estetici con la spiritualità e le loro attitudini inferiori riguardo ai valori spirituali. E’ semplicemente vero che le intuizioni spirituali del metafisico o del poeta, per la maggior parte, sono abbastanza lontane da una concreta esperienza spirituale; si tratta di lampi lontani, pallidi riflessi, non di raggi che provenfgono dal centro della Luce.
Non è meno vero che, guardando dall’alto, non c’è molta differenza tra le alte eminenze mentali e i livelli più bassi di questa eterna esistenza. Tutte le energie della Lyla, dell’eterno Gioco, viste dall’alto sono uguali, sono tutte rivestimenti del Divino. E tuttavia bisogna aggiungere che tutto può essere considerato un primo mezzo verso la realizzazione del Divino. Una sentenza filosofica sull’Atman è una formula mentale, non è conoscenza, non è esperienza; e tuttavia talvolta il Divino le usa come canale di contatto; stranamente, cade una barriera mentale, qualcosa viene visto, si opera un cambiamento in qualche parte interiore, penetra nella natura profonda qualcosa di calmo, di equanime, di ineffabile. Qualcuno sta su una cima montana e si arrampica o avverte mentalmente un senso di vuoto, qualcosa che pervade, la cosiddetta Vastità della Natura; e in maniera subitanea giunge il tocco, una rivelazione, un flusso, la mente si perde nello spirito, si produce la prima invasione dell’Infinito. Oppure state davanti a un tempio di Kali vicino a un fiume sacro e cosa vedete? – una scultura, un bello scorcio architettonico, ma in un attimo misterioso, inaspettatamente c’è lì una Presenza, un Potere, un Viso che guarda in voi, una visione interiore in voi ha visto la Madre dei Mondi. Simili tocchi possono venire a colui che cera mediante l’arte, la musica, la poesia o a qualcuno che avverte lo stimolo della parola, il significato nascosto di una forma, un messaggio nel suono che veicola forse più di quello che il compositore era consapevole di significare. Ogni cosa nella Lyla può diventare una finestra che si apre sulla Realtà nascosta. Tuttavia, per quanto uno sia soddisfatto di guardare attraverso la finestra, il guadagno è soltanto un inizio; un giorno egli dovrà prendere il bastone del pellegrino e intraprendere il viaggio per il luogo dove la Realtà è per sempre manifesta e presente. Ancor meno può esserci una spiritualità soddisfatta di restare nei riflessi d’ombra, si impone una ricerca verso la Luce che si sforza di raffigurare. Ma poiché questa Realtà e questa Luce sono in se stesse non meno in qualche regione alta al di sopra della regione mortale, nel cercarla dobbiamo ricorrere a molte figure e attività di vita; così uno offre un fiore, una preghiera, un’azione al Divino, un altro può offrire anche una forma creata di bellezza, un canto, un poema, un’immagine, un modo musicale, e ottenere mediante ciò un contatto, una risposta o un’esperienza. E quando questa divina coscienza è penetrata o quando cresce interiormente, allora ci sono anche le loro espressioni nella vita mediante quelle cose che non sono escluse dallo yoga; queste attività creative possono avere il loro posto, per quanto non intrinsecamente superiore alle altre utilizzate per uso e servizio divino. L’arte, la poesia, la musica, così come funzionano ordinariamente, creano valori mentali e vitali, non valori spirituali; ma possono essere rivolte verso un fine più alto e quindi, come tutte le cose capaci di collegare la nostra coscienza al Divino, esse vengono trasmutate e diventano spirituali, e possono quindi essere ammesse come parte della vita dello yoga. Tutte portano nuovi valori non in se stesse, ma grazie alla coscienza che le usa; perciò c’è soltanto una cosa essenziale, necessaria, indispensabile, accrescere la coscienza della Realtà Divina, vivere in essa e viverla sempre.
Quello che scrivete sul canto è perfettamente corretto. Voi cantate al meglio solo quando i dimenticate di voi stesso e lo lasciate sorgere dall’interno senza pensare ciò che serve per renderlo eccellente o all’impressione che deve fare. Il cantore esteriore dovrebbe quindi sparire nel passato, ed è solo così che può prendere il suo posto il cantore interiore.
Così come per il vostro canto, io non ho parlato di nessuna nuova creazione dal punto di vista estetico, ma del cambiamento spirituale – la forma che può prendere dipende da quel che trovate al vostro interno quando è presente la base più profonda. Non vedo nessuna necessità di rinunciare al canto; intendo solo – ed è la logica conclusione di quanto vi ho scritto, non adesso ma prima – che il cambiamento interiore deve essere la prima considerazione e il resto può nascere da questo. Se cantare in luogo pubblico vi distoglie dalla condizione interiore, dovete metterlo al secondo posto e cantare solo per voi stesso e per il Divino per quanto ne siete capace, anche di fronte agli altri, dimenticare l’uditorio. Se siete turbato dalla paura di fallire o eccitato dal successo, dovete superare la cosa.


Le sorgenti della Poesia

La rapidità della musa è stata ben rappresentata nell’immagine di Pegaso, il cavallo celeste della leggenda greca, e dal rapido colpo di zoccolo alla roccia da cui fluì l’Ippocrene. Le acque della poesia fluiscono in una corrente o in un torrente; quando c’è una pausa o un diniego è un segnale di interruzione nel flusso o di un’imperfezione nella mente, che le acque hanno scelto come letto o come contenitore. La stessa idea se ne ha in India; per gli Indiani Sarasvati è la dea della poesia, e il suo nome significa corrente, flusso, o “colei che si muove fluendo”. Ma anche Sarasvati è un’intermediaria. Ganga (il Gange) è la vera madre dell’ispirazione, colei che scorre impetuosa dalla testa di Mahadeva, il Dio supremo, dall’Himalaya della mente alle case e alle città degli uomini. Tutta la poesia è un’ispirazione, qualcosa che spira nell’organo pensante dal di sopra ; viene registrata nella mente, ma è nata in un principio più alto di conoscenza diretta o di visione ideale che supera la mente. In realtà è una rivelazione. Il potere profetico o di rivelazione vede la sostanza; l’ispirazione percepisce la giusta espressione. Non si tratta di manufatto; la poesia non è in realtà una poiesis o composizione, e neppure una creazione, ma è piuttosto la rivelazione di qualcosa che esiste eternamente. Gli antichi conoscevano questa verità e usavano la stessa parola per poeta e profeta, creatore e veggente, sophos (sapiente), vates, kavi.
Ci sono tuttavia differenze nella manifestazione. Il movimento poetico più grande arriva quando la mente è calma e il principio ideale opera al di sopra e all’esterno del cervello, al di sopra anche del loto dai cento petali della mente ideale, nel suo proprio impero; è da qui che è stato rivelato il Veda, la perfetta sostanza ed espressione della verità eterna. Questa più alta ideazione trascende il genio proprio come il genio trascende l’intelletto ordinario e la percezione. Ma questa grande facoltà è ancora oltre il normale livello della nostra evoluzione.
Di solito vediamo che l’azione della rivelazione e dell’ispirazione è prodotta da un secondario, diluito e incerto processo nella mente. Ma anche questa azione secondaria e inferiore è abbastanza grande da averci dato Shakespeare, Omero e Valmiki.
C’è anche una terza e più comune azione dell’ispirazione. Poiché dei nostri tre strumenti mentali di conoscenza, - il cuore o la mente che agisce emozionalmente, l’intelletto che osserva e ragiona grazie ai suoi aiuti, l’immaginazione e la memoria, e l’intelletto intuitivo – è in questo ultimo e più alto che il principio ideale trasmette le sue ispirazioni, quando la grande poesia si esprime tramite la mediazione del poeta. Ma se l’intelletto intuitivo non è capace abbastanza di agire abitualmente, per la poesia è meglio discendere nel cuore e tornare nell’intelletto soffusa e colorata di passione ed emozione, piuttosto che formarsi direttamente nell’intelletto osservatore.
La poesia scritta con l’intelletto razionale può essere piena di concetti ingegnosi, di logica, argomentazione, giri retorici, figure ornamentali, echi appresi e di imitazione piuttosto che elevati e trasformati. E’ questa quella che a volte viene chiamata poesia classica, la poesia vigorosa ed eccellente ma senza emozione ed elevatezza dei Pope e dei Dryden. Ha certo la sua ispirazione, la sua verità e il suo valore; ammirevole nel suo genere ma grande soltanto quando si innalza a scrittura intuitiva o è pervasa dal cuore. Poiché per ogni cosa che ha bisogno più di fuoco che di luce, di forza motrice più che di chiarezza, di entusiasmo più che di correttezza, il cuore è ovviamente lo strumento più potente. La poesia per essere grande ha bisogno o di entusiasmo o di estasi.
Anche se la poesia che sorge dal cuore è di solito un flusso torbido; le nostre idee agitate e le nostre immaginazioni mescolano alla pura irruzione dall’alto un turbolento fluire dal basso, le nostre emozioni eccitate rincorrono un’espressione esagerata, le nostre abitudini e predilezioni estetiche si agitano anch’esse chiedendo una soddisfazione più grande del dovuto. Una poesia del genere può anche essere ispirata, ma non è sempre adatta o inevitabile. C’è spesso una duplice ispirazione, quella più alta o estatica e quella più bassa o emozionale, e la più bassa disturba e trascina in basso la più alta. E’ questa l’origine della poesia romantica, una poesia eccessivamente esuberante, troppo ricca di espressione, troppo abbondante e ridondante nella sostanza.
La poesia migliore che arriva potentemente dai centri giusti può anche essere sobria e forte, disadorna e altera, così come può essere ricca e splendida; è può essere sia romantica che classica; ma dovrà cercare sempre di essere la cosa giusta in base all’intenzione; essa è sempre nobile e entusiasticamente inevitabile.
Ma anche nei centri più alti dell’intelletto intuitivo possono esserci difetti di ispirazione. C’è una sorta di falso fluire che smarrisce il vero linguaggio poetico per un offuscamento di percezione. Sotto l’impressione di una scrittura vera e ispirata fluisce con una imperturbabile uniformità, dicendo ciò che deve essere detto, ma non nel modo in cui deve essere detto, senza forza e in modo infelice. E’ questo lo stimolo tamasico o annebbiato, attivo, ma pieno di oscurità e ignoranza di sé. La cosa vista è giusta e buona, accompagnata dall’espressione ispirata potrebbe produrre una poesia davvero nobile. Invece sembra una prosa innaturale, difficile da sopportare proprio perché accorciata nelle righe. Wordsworth è il più caratteristico e interessante poeta vittima dello stimolo tamasico. Altri grandi poeti ne diventano preda, ma quel superbo e imperturbabile compiacersi dell’afflizione è soltanto suo. C’è un altro tipo di stimolo tamasico che trasmette un’espressione ispirata e impeccabile, ma la sostanza non è né interessante per l’uomo né piacevole per gli dèi. Una buona parte dell’opera di Milton rientra in questa categoria. Quel che accade in entrambi i casi è che sia l’ispirazione che la rivelazione erano presenti, ma la sua attività associata si è rifiutata di unirsi nel lavoro. E’ quando la mente lavora alla forma e alla sostanza della poesia senza rivelazione né ispirazione dall’alto che si produce questa rispettabile o minore poesia. Giudizio, memoria e immaginazione possono agire, può esserci padronanza di linguaggio, ma senza l’ulteriore azione di qualcosa di più alto della forza intellettuale, diventa fatica sprecata, lavoro che merita rispetto ma non immortalità. La poesia dozzinale e di basso livello trae origine non tanto dall’intelletto osservante quanto dalla mente sensoriale o dalla memoria passiva guidata solo dall’esclusivo piacere fisico del suono e dell’emozione. Si tratta di qualcosa di grossolano, di vistoso, esteriore, imitativo, volgare; la sua gamma di intellettualità ed immaginazione non può andare oltre l’impulso vitale e la gioia vitale. Ma anche nella mente sensoriale c’è una possibilità di una remota azione da parte del sé ideale, anche per gli animali che pensano solo sensorialmente.
Dio ha dato rivelazioni e ispirazioni che chiamiamo istinti. In queste circostanze anche la poesia di basso livello può avere qualcosa di valido, qualcosa di inevitabile. Il poeta nell’uomo sensoriale può essere interamente soddisfatto e deliziato, e anche nell’essere umano più sviluppato questo elemento sensoriale può trovare una soddisfazione poetica non delle più alte. Ne sono esempio le migliori ballate poetiche e i canti di Macaulay. Scott rappresenta una sorta di congiunzione fra la poesia sensoriale e quella intellettuale. Quando siamo di fronte a uomini essenzialmente sensoriali, secondariamente intellettuali e per niente ideali ne restiamo sempre ammirati.
Un altro tipo di falsa ispirazione è lo stimolo rajasico o infocato. Non è piatto e di poco frutto come quello tamasico, ma impulsivo, impaziente e vano. E’ pronto a evitare la fatica cogliendo immediatamente la migliore espressione o un’incompleta visione dell’idea, insufficientemente preoccupato di assicurarsi la forma migliore, la sostanza più soddisfacente. I poeti rajasici, anche quando trovano un difetto in quel che hanno scritto, esitano a sacrificarlo perché sentono e sono attaccati a ciò che in esso c’è di valido o al ricordo della gioia avvertita nello scriverlo la prima volta. Se gli danno un’espressione migliore o una visione più ampia, preferiscono ripetere piuttosto che eliminare il materiale inferiore del quale sono innamorati. A volte, ondeggiando o dibattendosi senza aiuto nel flusso di questa superficiale e veemente corrente, variano un’idea o arpeggiano sulla stessa immaginazione, senza mai raggiungere un successo definitivo nell’espressione. Esempi di questi stimoli rajasici sono comuni in Shelley e Spenser, ma sono pochi i poeti inglesi che ne sono immuni. E’ questo, dunque, l’errore rajasico nell’espressione. Ma lo stimolo focoso perverte anche o intralcia la sostanza. Un segno sicuro di idealità rajasica è l’assenza di auto-controllo, un’incapacità a restringere e limitare idee e immaginazioni. C’è un tentativo di esaurire tutte le possibilità del soggetto, di espandere e moltiplicare pensieri e visioni immaginarie oltre i limiti del giusto e del permissibile. Oppure la vera idea viene rigettata o fatalmente anticipata da un’altra che sembra più attraente e audacemente efficace.
Keats è l’esempio principale della prima tendenza, gli Elisabettiani della seconda. I primi lavori di Shakespeare abbondano di esempi classici. A differenza di quella Greca, quella inglese è una letteratura decisamente rajasica ; e per quanto ci sia in essa molto di più splendido di quasi tutto ciò che hanno fatto i Greci – più splendido, non migliore – una gran parte delle sue ammirevoli produzioni è piuttosto ricca o attraente di quanto non sia grande e vera.
La perfetta ispirazione nell’intelletto intuitivo è l’ispirazione sattvica o luminosa, che è disinteressata, auto-contenuta, o anche nobile, ricca o vigorosa; essa prende in considerazione solo la cosa giusta da dire e il modo giusto di dirlo. Non permette che la sua perfezione subisca interferenze da parte di emozione o impazienza, ma non esclude affatto l’estasi e l’esaltazione. Al contrario, la sua gioia di auto-delizia è un più puro e più squisito entusiasmo di quello che ci si aspetta da ogni altra ispirazione. Essa impone e utilizza l’emozione ma senza sottomettervisi. C’è dunque uno stimolo sattvico che è ancorato alla sua stessa luminosità, limpidezza e saldezza, che evita la ricchezza, la forza o l’emozione di carattere pungente anche quando queste fossero necessarie ed appropriate. La poesia di Matthew Arnold è spesso, anche se non sempre, di questo carattere. Ma si tratta di una ispirazione limitata. La poesia sattvica, così come quella rajasica, può essere prodotta da un intelletto non ispirato,ma la mente sensoriale non può mai dare origine a una poesia sattvica.
C’è da aggiungere una cosa. Un poeta non ha bisogno di critica riflessiva; non ha bisogno di un intelletto razionale e analitico e di sezionare la sua poesia. Due cose deve avere in qualche misura per essere perfetto, il giudizio intuitivo che gli mostra a una prima occhiata se ha l’idea migliore o quella che ad essa più si avvicina, l’espressione e il ritmo perfetti o imperfetti, e la ragione intuitiva che mostra senza bisogno di analisi perché o in quale caso è il meglio o quello che più si avvicina al meglio, se è perfetto o imperfetto. Queste quattro facoltà, rivelazione e profezia, ispirazione, giudizio intuitivo e ragione intuitiva, sono il perfetto equipaggiamento del genio nell’eseguire i lavori della conoscenza interpretativa e creativa.


 

Mère

Sulla musica

La Musica è essenzialmente un’arte spirituale

Il ruolo della musica sta nell’aiutare la coscienza a sollevarsi verso le altezze spirituali. Tutto ciò che abbassa la coscienza, incoraggia i desideri ed eccita le passioni, va contro il vero scopo della musica e dovrebbe essere evitato. Nella sua verità fondamentale l’Arte non è che una spetto della bellezza della manifestazione divina. Forse, da questo punto di vista, si scoprirà che sono pochi gli artisti veri; e tuttavia ce ne sono alcuni che possono essere considerati come degli Yogi. Infatti come uno Yogi un artista va in profonda contemplazione per aspettare e ricevere la sua ispirazione. Per creare qualcosa di veramente bello deve prima vederlo nella sua interiorità per poterlo realizzare interamente nella sua coscienza interiore; solo quando lo trova, lo vede, lo crea interiormente può esprimerlo all’esterno; egli crea in base alla sua più grande visione interiore. È anche questo un aspetto della disciplina yogica, grazie alla quale uno entra in intima comunione con i mondi interiori. Un uomo come Leonardo da Vinci era semplicemente uno Yogi. E anche se non era il più grande, era come minimo uno dei pittori più grandi, – anche se la sua arte non si limitò alla pittura. Anche la musica è un’arte essenzialmente spirituale ed è sempre stata associata al sentimento religioso e alla vita interiore. Ma, anche qui,l’abbiamo trasformata in qualcosa di indipendente e di autosufficiente, in un’arte insignificante com’è, ad esempio, la musica operistica. La maggior parte delle produzioni artistiche che noi conosciamo sono di questo genere e, nel migliore dei casi, sono interessanti dal punto di vista tecnico. Non dico che la musica lirica non possa essere usata come mezzo di espressione artistica superiore, poiché, qualunque sia la forma, la musica può essere composta per servire uno scopo più profondo. Tutto dipende dalla cosa stessa, da come viene usata, da ciò che sta dietro ad essa. Non c’è nulla che non possa essere utilizzato ai fini dello scopo Divino – proprio come qualsiasi cosa può pretendere di essere il Divino e tuttavia appartenere alle specie più insignificanti. La musica segue la regola di tutte le cose sulla terra – a meno che esse non siano rivolte al Divino non possono essere divine. Come tecnici sono meravigliosi, ma la tecnica è solo uno strumento. Se il tuo strumento è buono, tanto meglio, ma finché non si è sottomesso al Divino, per quanto bello possa essere, è privo delle cose più alte e non può servire uno scopo divino. La difficoltà è che la maggior parte di quelli che diventano artisti credono di camminare sulle loro gambe e di non aver bisogno di rivolgersi al Divino. È un grande peccato, perché nella manifestazione divina l’abilità è un elemento utile come nient’altro. L’abilità è una parte della fabbrica divina, soltanto essa deve sapere come subordinarsi alle cose più grandi. Se si vuole che l’arte sia arte vera e altissima, essa deve essere l’espressione di un mondo divino portato giù in questo mondo materiale. Tutti i veri artisti hanno un’intuizione di questo, alcuni avvertono di essere il tramite tra un mondo più alto e questa esistenza fisica. Considerata in questa luce l’arte non è molto diversa dallo Yoga. Ma più spesso l’artista ha soltanto una sensazione indefinita, non ha la conoscenza. Tuttavia conoscevo qualcuno che l’aveva; essi lavoravano consapevolmente alla loro arte con la conoscenza. Nella loro creazione non mettevano in primo piano la loro personalità come il fattore più importante, ma consideravano la loro opera come un’offerta al Divino, cercavano di esprimere attraverso di essa la loro relazione con il Divino. Era questa la funzione propria dell’Arte nel Medioevo. I pittori “primitivi”, i costruttori delle cattedrali nell’Europa del Medioevo non avevano una concezione diversa dell’arte. In India tutta la sua architettura, la sua scultura e la sua pittura procedevano da questa fonte ed erano ispirate da questo ideale. I canti di Mirabai e la musica di Thyagaraja, la letteratura poetica costruite dai suoi devoti santi e Rishi figurano tra i più grandi risultati artistici del mondo.

Un mezzo di evocazione

La [letteratura] è un mezzo di vocazione che corrisponde peraltro alla musica. Naturalmente, uno può analizzare la letteratura e vedere come è costruita una frase, ma è come scambiare l’essere umano con lo scheletro. Non è attraente, uno scheletro. Ed è la stessa cosa. Se si studia il contrappunto musicale, e se questo non deve necessariamente condurre a quest’altro, e questo gruppo di note deve necessariamente condurre a quest’altro, si spoglia anche la musica, si fa della musica uno scheletro, e questo non è interessante. Queste cose devono essere avvertite con i sensi corrispondenti,…catturando l’armonia e quel che essa evoca.

Dietro la forma esteriore della Musica
 
D. Che cosa c’è dietro la forma esteriore della musica?
 
La musica è un mezzo per esprimere certi pensieri, sentimenti, emozioni ed aspirazioni. C’è anche una regione in cui esistono tutti questi movimenti e da lì, nel modo e nel momento in cui vengono fatti scendere, prendono una forma musicale. Chi sa comporre molto bene, con una certa rapidità di ispirazione, produrrà una musica molto bella, poiché è un buon musicista. Anche un musicista mediocre può godere di un’ispirazione molto buona; può ‘ricevere’ qualcosa di pregevole, ma, poiché non possiede capacità musicale, ciò che produrrà sarà terribilmente banale, ordinario e privo di interesse. Tuttavia, se si va oltre, se si raggiunge il luogo stesso in cui si trova l’origine della musica, – dell’idea, dell’emozione e dell’ispirazione – se si arriva là, si può saggiare questa realtà originale senza essere ostacolati dalle forme. Ne può anche derivare un’espressione musicale banale, se quella era l’ispirazione di chi ha scritto la musica. Naturalmente, ci sono casi in cui non c’è ispirazione o in cui l’origine è rappresentata semplicemente da una sorta di musica meccanica. Ad ogni modo, la musica non è sempre interessante. Ciò che intendo è che c’è una condizione interiore in cui la forma esteriore non è la cosa più importante: è l’origine della musica, l’ispirazione che sta aldilà, che è importante, non semplicemente il suono ma ciò che il suono esprime. Ci sono dei brani musicali che non hanno ispirazione, è come se fossero cose meccaniche. Ci sono musicisti dotati di grande virtuosismo, cioè che possiedono la tecnica e che, per esempio, possono eseguire senza fare un errore le composizioni più rapide e più difficili. Riescono ad eseguire la musica ma senza esprimere nulla, come una macchina. Questa non ha alcun valore, eccetto per il fatto che costoro possiedono una grande abilità. Infatti quello che importa in tutto ciò che si fa è l’ispirazione; in tutte le creazioni umane la cosa più rilevante è la ‘fonte’. Naturalmente, l’esecuzione deve essere allo stesso livello dell’ispirazione; si deve possedere una tecnica molto buona se si ha intenzione di esprimere veramente bene le realtà più elevate. Questo non significa però affermare che la tecnica non è necessaria; anzi è addirittura indispensabile, ma non è la sola cosa necessaria ed è meno importante dell’ispirazione. La qualità essenziale della musica dipende dal luogo di provenienza, dalla sua origine.

D. Che cosa significa “la sua origine”?

Il suo punto di partenza. Proprio come la sorgente è l’origine del fiume.

D. Ci sono tante sorgenti per ogni cosa?

Tutta la vita fisica ha la vita mentale e vitale come propria origine, Le realtà mentale e vitale hanno, anch’esse, un’altra origine e così via. Nulla può essere manifestato fisicamente sulla terra che non abbia una verità più alta alla sua origine, altrimenti il mondo non esisterebbe. Se fosse una cosa piatta che ha la sua origine in sé, cesserebbe ben presto di esistere. È perché c’è una forza che spinge, una energia che si dirige verso la manifestazione, che la vita continua ad esistere. Altrimenti si esaurirebbe rapidamente.
 
Differenti origini dell’Ispirazione

D. Da quale piano generalmente proviene la musica?

Procede per gradi. C’è una categoria di musica che proviene da un vitale un po’ più alto, che è molto orecchiabile, in qualche modo (per non dire proprio del tutto) volgare, è qualcosa che fa ballare i nervi. Questa musica non è necessariamente disgustosa ma , generalmente, stimola i centri nervosi. Così come c’è una musica che ha un’origine vitale, c’è anche una musica che ha un’origine psichica ed è una cosa completamente diversa. E poi c’è una musica che ha un’origine spirituale; è così luminosa che trasporta altrove, cattura completamente. Ma se si vuole eseguire con precisione questa musica, si deve essere capaci di farle attraversare il piano vitale. La musica proveniente dall’alto può essere, esternamente, alquanto piatta, se non si possiede l’intensità della vibrazione vitale che le conferisce il suo splendore, la sua forza. Ho conosciuto persone che possedevano veramente un’ispirazione molto elevata la quale diventava assolutamente piatta a causa di un vitale che non si muoveva. Devo ammettere che, con le loro pratiche spirituali. Queste persone mettevano completamente a riposo il loro vitale – dormiva letteralmente, non era affatto attivo – la musica giungeva direttamente nel fisico e, se si fosse fatto il collegamento con l’origine della musica, si sarebbe notato che era qualcosa di meraviglioso ma che, esternamente, non aveva presa, era una melodia modesta, molto povera, molto lieve: non c’era nulla della forza dell’armonia. Quando si riesce a coinvolgere il vitale, allora si ottiene tutta l’energia vibratoria. Se si eleva questo piano verso una più alta origine, si ottiene la musica di un genio. La musica è molto particolare; è difficile, richiede un intermediario. È come per tutte le altre cose, anche per la letteratura, per la poesia, per la pittura, per qualunque cosa si faccia. Il vero valore della propria creazione dipende dall’origine dell’ispirazione, dal livello, dall’altezza in cui ci si trova. Ma il valore dell’esecuzione dipende dalla forza vitale che la esprime; per fare un genio, sono entrambe necessarie, e ciò è alquanto raro. Generalmente, c’è l’una o l’altra; più spesso, c’è il vitale. Ci sono altri tipi di musica come quella del caffè concerto, del cinema; sono di un’abilità straordinaria ed allo stesso tempo eccezionalmente banali, volgari. Ma è una musica realizzata con straordinaria destrezza: colpisce il plesso solare ed è questa la musica che si ricorda nel tempo perché vi ‘afferra’ immediatamente e vi accompagna, ed è molto difficile liberarsene, poiché è una musica benfatta, molto benfatta. È costruita vitalmente con vibrazioni corrispondenti, ma ciò che sta dietro è orribile. Immaginate questo stesso potere di espressione vitale, con l’ispirazione proveniente da un livello molto alto – la più elevata ispirazione possibile quanto tutto il ‘cielo’ si apre davanti a noi – allora questo binomio diviene meraviglioso. Ci sono certe cose di Cèsar Franck, certe di Beethoven, altre di Bach e vi sono anche altri compositori che hanno questa espressione e questo potere. Ma è solo un momento, viene come un momento che non dura. Non si può pretendere l’intero lavoro di un’artista come se fosse tutto su quel livello. L’ispirazione arriva come un flash; qualche volta dura abbastanza a lungo e l’opera rimane integra; e quando l’ispirazione è presente, si produce l’effetto corrispondente: cioè, se si è attenti e concentrati, vi innalza immediatamente, solleva tutte le vostre energie, è come se qualcuno aprisse la vostra testa e foste proiettati nell’aria a vertiginose altezze, con magnifiche luci. In pochi secondi, produce risultati che sono ottenuti con tanta difficoltà e tanti anni di yoga. Solo che, di solito, in seguito si può ricadere, poiché la coscienza non permane. Si ha l’esperienza e dopo non si sa neanche cosa è successo. Ma, se si è preparati, se si è veramente coltivata la propria coscienza attraverso lo yoga, allora l’evento accade e, in questo caso, è una cosa permanente.

D. Sotto quale forma arriva la musica nei grandi compositori? Cioè, è solo la melodia che arriva o è ciò che posi si ascolta?

Ma, questo dipende dal musicista. È proprio ciò che stavo dicendo. Per esempio, qui in India, la scienza dell’armonia non esiste molto, quindi la percezione viene tradotta attraverso la melodia. Non appena il vitale interviene, si ha una complessità armonica nella musica. Questa le dà una ricchezza, una pienezza che non aveva.

D. Ma è la melodia che si percepisce?

No, è la musica e la musica non è necessariamente una melodia. È una relazione di suoni che non è necessariamente melodia. La melodia organizza parte di questa relazione di suoni.

Musica europea e musica indiana

D. A cosa è dovuta la grande differenza tra la musica europea e quella indiana? È l’origine o l’espressione?

Sono entrambe la stessa cosa ma in un senso inverso. Questa ispirazione elevata, raramente è presente nella musica europea; è anche rara l’origine psichica, molto rara. O proviene da regioni molto alte o è vitale. L’espressione quasi sempre, eccetto che in alcuni casi rari, è un’espressione vitale, interessante, potente. Più spesso, l’origine stessa è puramente vitale. Qualche volta proviene dalla sommità ed allora è meravigliosa. Qualche volta è psichica, particolarmente in quella che è stata la musica religiosa; ma ciò non è molto frequente. La musica indiana, quasi sempre, quando si tratta di buoni musicisti, ha un’origine psichica; per esempio, i raga, hanno un’origine psichica, provengono dallo psichico. L’ispirazione non trae origine con frequenza dall’alto. Ma la musica indiana è rivestita molto raramente da un forte vitale. Ha piuttosto un’origine interiore ed intima. Ho ascoltato una grande quantità di musica indiana, moltissima, e raramente ho sentito musica che possedeva una forza vitale, molto raramente, forse non più di quattro o cinque volte; ma, molto spesso, ha un’origine psichica, si trasferisce quasi direttamente nel fisico; e, quindi, ci si deve veramente concentrare; e, poiché tale musica è – come dire – molto esile, tenue, non c’è alcuna intensa vibrazione vitale, si può facilmente scivolarci dentro e risalire all’origine psichica. Produce un effetto particolare, è una sorta di trance estatica, come se si trattasse di ebbrezza. Vi rende possibile, in qualche modo, l’entrata in trance. Allora, se sia scolta bene e ci si lascia andare, si procede e si scivola, si entra in una coscienza psichica, Ma se si rimane solamente nella coscienza esteriore, la cosa è così tenue che non c’è risposta del vitale, vi lascia completamente piatti. Talvolta, c’è una forza vitale, allora diventa proprio buona…Io stessa amo molto questa musica, questo specie di tema che si sviluppa in un gioco. Il tema vero e proprio è essenzialmente molto musicale; quindi si sviluppa con variazioni innumerevoli ed è sempre ,o stesso tema che si sviluppa in un modo o nell’altro. In Europa, c’erano musicisti che erano veramente musicisti e, anche loro, avevano questa capacità: Bach l’aveva, era solito comporre in questo modo, anche Mozart, la sua musica era puramente melodiosa, non aveva intenzione di esprimere altre cose, era musica per amore della musica. Personalmente, trovo che questo modo di comporre con un certo numero di note poste in una certa relazione (però ci sono variazioni quasi infinite) sia meravigliosamente adatto per mettervi in stato di riposo e per consentirvi di entrare profondamente dentro di voi. E quindi, se siete pronti, vi apre alla coscienza psichica: qualcosa che vi ritira dalla coscienza esterna, vi fa entrare altrove, dentro di voi.

(traduzione di M. Furru e G. Elia)

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Natale (conferenza di Rudolf Steiner del 1907)

     Miei Cari Amici,

La Teosofia – se bene e profondamente compresa – ricondurrà sempre più l’uomo alla vera vita; a quella vita alla quale la filosofia materialista certo non lo avvicina, come generalmente si crede, ma lo allontana sempre più.
Ciò è stato detto e ripetuto qui e altrove, per caratterizzare la missione del movimento teosofico; ma non per questo sembrerà meno strano ai nostri contemporanei usi, per lo più, a considerare come “vera vita” tutt’altro di quello che la Teosofia può dare, e persuasi che la Teosofia è meno di ogni altra cosa in grado di condurre l’uomo alla realtà pratica della vita.
Eppure vi riuscirà davvero nelle piccole come nelle grandi cose. La Teosofia riuscirà, se coloro che si occupano di vita pubblica o d’altre questioni vorranno lasciarsene compenetrare, a risolvere tutti i grandi problemi del nostro tempo nel modo necessario a condurre l’umanità verso una più piena espansione di vita.
Tutta la confusione, il disordine, le condizioni malsane dell’epoca nostra, le così dette “questioni del giorno” che da veri dilettanti si cerca di risolvere partendo sconsideratamente or da questo or da quel punto di vista, non potranno essere trattate con vero profitto, se non quando i nostri contemporanei si risolveranno a compenetrarsi della verità teosofica. Non di questo però vogliamo intrattenerci oggi; ci basti l’avervi accennato.
Ci occuperemo oggi della Teosofica dal punto di vista del sentimento; considereremo con l’occhio dell’anima come la vita d’oggi debba apparire fredda, arida, ottusa, di fronte a una concezione della vita più profonda e più calda; ce ne accorgeremo specialmente all’avvicinarsi di una delle grandi feste: Natale, Pasqua, Pentecoste; vedremo allora come ciò che si conserva e si osserva, non siano che le forma e le abitudini esteriori. Ben poco è rimasto di ciò che in tali ricorrenze sì commoveva l’anima dei nostri antenati! Di quella viva e penetrante intuizione dei rapporti tra l’uomo e l’universo e della sua essenza divina che sempre esisteva in loro e si accentuava ancor più nei giorni di festa. Queste feste erano qualche cosa di reale per l’anima, e l’anima sentiva Diversamente i qui giorni che negli altri giorni dell’anno.
L'uomo dei nostri tempi non riesce più a farsi un'idea di ciò che nelle età primitive commoveva allorché, accorciandosi le giornate, si avvicinava alla fine dell'anno e si celebrava la nascita del Cristo Gesù; oppure la resurrezione del Cristo Gesù, quando di sotto la fredda coltre di neve che lentamente scompariva, tornava alla luce tutto ciò che della terra vi aveva nascosto. La nostra vita sembra concreta; ma in realtà i sentimenti dei nostri contemporanei sono diventati delle fredde e vuote astrazioni. La gente va per le strade e della festa del Natale non s'accorge più che per i regali, gli altri sentimenti non sono più che un'eco lontana dei sentimenti profondi da cui erano penetrati i nostri progenitori in simili ricorrenze. L'uomo ha perduto il contatto immediato con la vita, ed è uno dei compiti della Teosofia il ristabilire questo contatto per la via del sentimento.
Chi si occupa soltanto delle teorie e delle dottrine filosofiche, di quello che comunemente si chiama " la concezione teosofica , " non ha compreso che una minima parte della teosofia. La comprende bene chi sà quale trasformazione dovrà avvenire in tutto il mondo delle sensazioni e dei sentimenti umani quando la teosofia compenetrerà i cuori e le anime. Il profondo significato delle nostre feste - dimenticato per un certo tempo, divenuto vuota astrazione – si riaffaccerà più vivo davanti all'anima, quando l'uomo sarà nuovamente penetrato degli intimi rapporti esistenti tra lui e tutto il mondo circostante, rapporti che la Teosofia rivela e mette in luce.
Più volte già ci siamo occupati della festa del Natale nel suo significato più profondo, ma oggi la considereremo da un altro lato, cercando di vedere come i pensieri e i concetti filosofici agiscano su tutti i nostri sentimenti; come essi realmente facciano diventare l'uomo affatto diverso da quello ch’è ora, restituendogli la facoltà di sentire l’immediato vibrare della vita spirituale della Natura, e quel calore vivificante che pervade l'Universo animandone tutti gli esseri.
Oggi, chi alza gli occhi alla volta stellata del cielo, vede il firmamento popolato di tutti quei globi fisici, materiali, di cui parla l’astronomia astratta.
Un giorno quei globi appariranno nuovamente all’uomo come corpi pervasi d’anima e di spirito; tutto lo spazio sarà per lui nuovamente compenetrato d’anima e di spirito. Egli sentirà in sè tutto l’Universo, caldo d'amore, come sentirebbe stringendo al cuore un amico, ma naturalmente un sentimento ben più grande e possente desterà in lui lo Spirito dell' Universo.
Sappiamo già che soltanto nell'uomo possiamo trovare ciò che chiamiamo un' "Anima individuale," un'anima che dimori, per così dire, in un corpo separato. Per gli altri organismi viventi intorno a noi, l'anima e da cercare in altro modo e in altra forma. Anche gli animali hanno un'anima; ma noi la cercheremo invano qui sul piano fisico. L' Io degli animali, quello che chiamiamo un " Io collettivo " o un' "Anima di gruppo," si trova sul piano astrale; e dei gruppi interi d'animali affini, come per esempio tutte le tigri, tutti i leoni, tutti i gatti, insomma tutti i singoli gruppi di specie affini hanno una comune " Anima di gruppo, " un comune " Io collettivo. " La distanza che separa i singoli animali qui sulla terra, non ha nulla a che fare con ciò; che un leone viva in un deserto e un altro in un serraglio, non importa: tutti gli esemplari della specie appartengono allo stesso " Io, " che l'occultista può trovare sul piano astrale. Questi " Io collettivi " sono sul piano astrale delle personalità separate; e come sul piano fisico la persona umana e separata, così " l'Anima di gruppo " di un dato gruppo di animali, forma una personalità separate sul piano astrale. Come le dieci dita appartengono ad una determinata persona, così, per esempio, tutti i leoni appartengono all'anima collettiva del leone. Chi potesse venire a conoscere le singole anime collettive sul piano astrale, troverebbe che la loro caratteristica più spiccata e la saggezza, per quanto poco saggi possono sembrarci i singoli animali sulla terra. Nessuno può, dalla qualità dei singoli animali, giudicare delle qualità proprie alle Anime collettive del piano astrale. Come le dita non presentano le qualità d'un intero individuo, così un solo animale non presenta le qualità dell' Anima collettiva. Con saggezza agiscono queste Anime collettive, con molta maggior saggezza di quanto noi possiamo immaginare; tutto ciò che noi vediamo fare dagli animali, è effetto delle loro Anime collettive. Queste dimorano entro la nostra atmosfera, intorno al globo terrestre, intorno a noi.
Seguendo il passaggio degli uccelli, ed osservando come essi migrino al principiare dell’autunno, dal Nord-Est verso Sud-Ovest, e come in primavera ritornino a migrare dal Sud-Ovest al Nord-Est verso la patria, facilmente ci domandiamo:”Chi mai dirige con tanta sapienza quelle migrazioni d’uccelli?”
L’occultista, ricercando chi governa e dirige quegli stormi, trova, sul piano astrale, le Anime collettive delle singole specie. Per ogni razza animale esite un “Io” astrale, ch’è un vero 2Io” sul piano astrale, come è l’Io umano sul piano fisico: solo infinitamente più saggio! Le personalità collettive degli animali sul piano astrale, che hanno i loro singoli membri sul piano fisico, sono realmente assai più sagge delle persone umane; e tutto ciò che ammiriamo come istinti meravigliosi dei singoli animali, è una manifestazione della sapienza delle Anime di gruppo. Come diversamente ci moviamo pel mondo, quando sappiamo che ad ogni passo siamo circondati da esseri di cui vediamo le azioni!
Se osserviamo il regno vegetale, troviamo che l’ ”Io” di questo regno dimora in un mondo ancor più elevato di quello in cui si trovano le Anime di Gruppo degli animali, cioè nel mondo mentale o Devachan. Questi “Io” o Anime collettive delle piante, sono ben pochi, perchè ognuno d’essi abbraccia un numero stragrande di singole piante del mondo fisico, molte specie di piante. E la dimora delle Anime collettive delle piante, è il centro della terra. Là sono riuniti tutti gli “Io” delle piante.
Sarebbe molto ingenuo il chiedere se tutti questi “Io” possano poi trovar posto; nei mondi spirituali tutto si interpenetra. Chi non sa comprendere questo, arriverà a certe vedute, quali si trovano in un libro molto raccomandato anche ai teosofi, e dove si parla pire del mondo spirituale, ma in modo da porre, per esempio, la seguente questione: “Ammettendo che nel corso d’un migliaio d’anni abbiano vissuto circa trenta miliardi d’uomini le cui anime dovrebbero trovarsi nell’atmosfera terrestre, è da credere che ad un numero così immenso di anime, finirebbe per mancare lo spazio.” Quel libro (“Le forze ignote” di Flammarion) sarà pieno di buone intenzioni, ma è straordinariamente materiale.
Dobbiamo dunque ricercare le Anime collettive delle piante nel centro della Terra, perché la Terra stessa, come pianeta, è un organismo completo; e come i peli e i capelli fanno parte d’un organismo animale o umano, così le piante fanno parte dell’organismo della Terra Esse non sono esseri autonomi, ma parti dell’organismo terrestre; il dolore e il piacere delle piante è dolore e piacere dell'organismo terrestre.
Chi è capace di osservare queste cose, sa che se noi lediamo una pianta nelle sue parti superiori, tale lesione non procura una sensazione di dolore all’organismo della nostra terra, anzi gli dà una sensazione di piacere, simile a quella, pure piacevole, che prova la mucca quando il vitello le succhia il latte dalle mammelle: perché ciò che di vegetale germoglia e cresce dalla Terra, si può, per quanto solido, paragonare al latte prodotto dall’organismo animale. E quando la falce del mietitore passa sul campo recidendo migliaia di steli, colui che sa trasformare in sentimenti le idee teosofiche non vede in ciò solo un fatto materiale, ma vi sente il soffio di voluttà che passa pel campo, e le sensazioni di gioia e di piacere che la falciatura diffonde sulla Terra.
Così impariamo a sentire all’unisono coll’organismo terrestre come con un amico; impariamo anche a conoscerne il dolore, quando apprendiamo che la Terra soffre, per esempio, se si strappa una pianta con tutte le radici. Lo strappare una pianta con le radici causa dolore alla Terra: e non vuol dir nulla che, in date circostanze, possa essere più opportuno trapiantare una pianta con le radici che coglierne un fiore; questo non toglie che la Terra soffra, con soffrirebbe l’uomo che, cominciando ad incanutire, per sembrare più bello, si strappasse i primi capelli bianchi.
Così dunque impariamo a sentire all’unisono colla Natura che ci circonda, ed essa diventa per noi, sempre più, piena d’anima e di spirito. Noi la sentiamo quando in una cava di pietra vediamo le schegge saltar via dalla roccia infranta dal piccone del minatore, o quando un grosso blocco si disgrega sotto l’azione d’una mina. Noi la sentiamo ugualmente osservando come un pezzo di sale o di zucchero si disciolga in un bicchier d’acqua. Tutto ciò non resta un vuoto e freddo fatto materiale per chi abbia in sè vivificate col sentimento le idee teosofiche, egli sente un’anima in tutto ciò, e per scoprirla non deve già ricorrere alle solite analogie. Poichè sarebbe facile pensare che il picchiare la roccia col martello o il disciogliersi del sale e dello zucchero nell’acqua dovesse causare dolore alla Natura; invece avviene il contrario. Tutto ciò che si disgrega, che si schianta, che si discioglie nel mondo minerale, produce alla Natura la massima sensazione di voluttà e di gioia.
Altri processi invece producono altri effetti.
Ripensiamo all’età primitiva della Terra, quando essa era un globo liquido-incandescente, e tutta la materia metallica e minerale vi si trovava allo stato di fusione. La Terra non poteva rimanere così, poichè doveva diventare la nostra dimora, la solida dimora sulla quale possiamo moverci. I metalli ed i minerali liquido-incandescenti dovevano consolidarsi; tutto ciò che si trovava allo stato di fusione doveva restringersi cristallizzarsi, solidificarsi, precisamente come avviene in un recipiente d’acqua calda in cui sia stato sciolto del sale. Facendo raffreddare quella soluzione, si vedono formarsi i cristalli salini, staccandosi come piccoli corpi solidi dalla massa d’acqua. Ciò produce una sensazione di dolore nel regno minerale solo apparentemente privo di vita. Tutto ciò che in apparenza si distrugge, si disgrega, si discioglie entro il regno minerale, dà alla Terra un senso di piacere e di voluttà; mentre tutto ciò che si condensa, si cristallizza e si consolida le produce dolore. Nel dolore si è venuta solidificando l’ossatura della nostra Terra, si sono venuti formando i minerali e le rocce sui quali noi dimoriamo. Più o meno ciò è avvenuto per la formazione di tutta la crosta terrestre.
Se pensiamo all’avvenire della nostra evoluzione terrestre, dobbiamo rappresentarci che tutte le sostanze ora solide della Terra, diventeranno sempre più liquide e più fluide. La Terra finirà per trasformarsi in quello che chiamiamo la “Terra Astrale” quando la sua materia sarà andata via via raffinandosi fino a questo punto. Mentre nella prima metà del processo formativo della nostra Terra, la materia inorganica andò, nel dolore e nella sofferenza, sempre più solidificandosi fino a poter diventare la nostra solida dimora, di mano in mano che l’evoluzione si avvierà verso la fine, essa sarà accompagnata da un sempre crescente senso di benessere e di piacere, finchè la terra tutta intera sarà immersa nella gioia allorchè si trasformerà in un pianeta celeste che avrà esistenza puramente astrale.
Quando gli iniziati parlano delle cose, enunciano spesso dei profondi misteri; le loro parole sono tanto pregne di significato, da poter esser spesso interpretate in diversi modi. Molte, per esempio, delle sentenze di S.Paolo, ch’era un Iniziato, hanno diversi significati; e più noi progrediamo nella comprensione del Cosmo e dei mondi spirituali, più profonda ci apparirà qualunque sentenza di San Paolo. Ben egli sapeva che i corpi terrestri si sono solidificati con dolore e che sospirano vero il loro dissolvimento verso l’esistenza celeste, spirituale, la dove disse: “Tutta la natura sospira nei suoi dolori aspettando l’adottazione.”
Con questa sua sentenza profonda San Paolo, l’Iniziato, allude appunto alla sofferenza nella quale è venuta formandosi quella che è oggi l’ossatura minerale della nostra Terra.
Non interpretiamo giustamente la Teosofia finchè essa resta per noi solamente un sistema di pensiero; ma lo strano + che le idee si tramutano in sentimenti, e che noi pure ci trasformiamo perchè impariamo a sentire profondamente nell’anima nostra ciò che, ad ogni passo, vediamo nel mondo esterno. Questo intendevano coloro che veramente conoscevano gli insegnamenti esoterici del Cristianesimo. Possiamo seguire fino al secolo decimo-ottavo gli scrittori cristiani che avevano ancora il sentimento di quello che vive nella Natura, di tutto ciò ch’è sua gioia o dolore. Nei loro scritti perciò troviamo cose che per l’uomo d’oggi sono solamente parole, tutt’al più allegorie e parabole, mentre sono da intendere come cose reali. “Non dovete soltanto pensare la Natura, dovete compenetrarvene, sentirla, gustarla.” Con questo essi intendevano che dobbiamo sentire, provare in noi stessi le sensazioni che passano pel campo quando il mietitore falcia le messi; che dobbiamo condividere il sensi di benessere della Natura quando il minatore sminuzza le pietre della cava; che dobbiamo sentire ciò che si produce di sofferenza, quando vediamo depositarsi la terra là dove il fiume versa le sue acque nel mare.
Così si anima per noi la Natura; così l’anima dell’uomo varca i suoi limiti e il sentimento pervade tutto il mondo all’intorno. Così diventiamo uno con ogni singola cosa che ci circonda; e quando ci uniamo in questo modo con tutta la Natura, allora veniamo a sentire in tutta l’anima loro e in tutto il loro spirito anche i più grandi avvenimenti. Quando in primavera si allungano le giornate e sempre più luce si versa su di noi, quando dal grembo misterioso della Terra nascono le piante i cui germi ella rinserrava, quando tutto si riveste di verde, allora noi sentiamo prorompere dalla Terra non soltanto ciò che vediamo – il verde smagliante – noi sentiamo che avviene pure qualche cosa che ha rapporto con l’Anima. E quando, verso l’inverno, si accorciano le giornate e la luce diminuisce, quando le piante sembrano ritirarsi in sè e le foglie ingialliscono, allora sentiamo che la Natura si avvìa verso il sonno, come noi quando siamo stanchi la sera. Così sentiamo il risveglio della primavera, e tutto ciò non è più per noi un’allegoria. Ma profonda realtà. Sentiamo le alternative della Natura, e come dal colmo dell’estate in poi tutto discende, come l’anima della nostra Terra si avvìa verso il sonno.
Ma allora, quando l’uomo la sera si addormenta, avviene quel processo vitale da noi più volte descritto: a poco a poco il corpo astrale dell’uomo, insieme col suo “Io,” si ritira dal corpo fisico, si svincola e si libra, per così dire, nel mondo che gli è proprio. E se l’uomo allo stato attuale dell’evoluzione umana potesse già quello che potrà più tardi, allora, quando il corpo astrale abbandona il corpo fisico ed il corpo eterico, si sveglierebbe in lui la coscienza spirituale: egli si sentirebbe circondato dal mondo e dall’azione spirituale, entrerebbe semplicemente, nel lasciare il suo corpo fisico, in un altra forma di esistenza. Anche ora ciò avviene realmente, solo che l’uomo, al suo stato attuale di sviluppo, non ne ha coscienza.
Ora, la stessa cosa avviene con la nostra terra. Il corpo astrale della terra subisce, nelle varie stagioni, dei cambiamenti. Questi sono diversi per i due emisferi del globo, ma ciò qui non importa. Nell'epoca in cui la vita e le piante rinascono sulla terra, il suo corpo astrale è impegnato nell'esistenza materiale della terra; per opera sua crescono le piante, per opera sua tutto germoglia e si sviluppa. Invece nell'autunno, quando la terra cade in una specie di sonno, il suo corpo astrale passa ad un'attività spirituale.
Chi sente in modo vivo questo processo della terra, sa che in tutto quello che cresce e si sviluppa dalla primavera fino all'autunno mentre il sole e alto sull'orizzonte, si ha la manifestazione esterna immediata dello spirito della terra. Più tardi invece quando viene all'autunno, ci si trova davanti al corpo astrale della terra che si va liberando; e finalmente, nei giorni più brevi, quando la vita fisica esterna si avvicina maggiormente al sonno, allora si risveglia la vita spirituale della terra. E che cos'è questa " vita spirituale della terra?" chi è lo " Spirito della Terra?"
Lo "Spirito della Terra " si è indicato tale da Se stesso quando disse: " Colui che mangia e il mio pane mi calpesta coi piedi, " e quando, accennando a ciò che la Terra produce di alimento solito per l'uomo, disse: " Questo è il mio corpo, " e quando, accennando ai succhi che scorrono in tutto ciò che vive sulla Terra, disse: " Questo è il mio sangue. " Con queste due sentenze Egli stesso ha indicato la Terra come il Suo organismo.
Tutto ciò non fu sempre così: le cose mutarono dall'epoca prima di Cristo all'epoca dopo Cristo; le condizioni esistenti nell'epoca cristiana ebbero origine soltanto a un dato momento dell'evoluzione della terra.
Nei tempi antichi, quando si celebravano i sacri Misteri, nell'epoca dell'anno in cui i giorni erano più brevi, gli iniziandi si rivolgevano con tutta la loro anima verso il sole; e nella " profonda mezzanotte " del giorno all'incirca che per noi è il giorno di Natale, gli iniziandi ne i sacri Misteri antichi erano resi capaci di vedere il " Sole di mezzanotte, " acquistavano cioè il potere della chiaroveggenza. L'uomo attuale non può vedere il sole di mezzanotte, poiché materialmente il sole si trova dall'altra parte della terra; ma per il veggente la Terra, infrapponendosi, non impedisce la vista del sole, dacché egli ne vede l'entità spirituali. E quando i veggenti, nei sacri Misteri antichi, vedevano il sole di mezzanotte, e se ne vedevano il Reggente, cioè il Cristo. Egli era là, per quelli che dovevano entrare in comunicazione con Lui, ma fino allora si trovava esclusivamente nel sole.
Quando sul Golgota il sangue sgorgò dalle ferite, avvenne un fatto importantissimo per tutta l'evoluzione della terra; nessuno capisce tale avvenimento, se non sa comprendere come il Cristianesimo sia basato sopra un fatto mistico. Se qualche chiaroveggente, da un lontano pianeta avesse potuto seguire, attraverso i millenni, l'evoluzione della terra, ne avrebbe osservato non solo il corpo fisico ma anche il corpo astrale, e nel corpo astrale della Terra avrebbe potuto scorgere per migliaia e migliaia danni date luci, dati colori ed altre forme. In un dato momento ciò si è cambiato: altre forme apparvero, altre luci ed altri colori si accesero; e questo ebbe luogo nel momento in cui sul Golgota il sangue sgorgò dalle ferite del Redentore. Non fu questo un avvenimento puramente umano fu un avvenimento cosmico, in virtù del quale l'Io nel Cristo che fino allora poteva essere ricercato soltanto nel sole, passò nella Terra. Egli si congiunse con la Terra; e nello " Spirito della Terra "troviamo l'Io nel Cristo, l'Io del Sole. Quello lo Spirito del Sole che l'Iniziato, nei sacri misteri dell'antichità, ricercava nel Sole alla mezzanotte del Natale, l'Iniziato d’oggi può vederlo nello stesso Cristo, come Spirito centrale della Terra.
Nel sentire il vincolo vivo tra sè stesso e lo Spirito del Cristo sta la coscienza cristiana: non solo quella del cristiano ordinario, ma la coscienza delle Iniziato cristiano.
Questo e il processo che ha luogo ogni anno quando le giornate si accorciano e la Terra fisica si addormenta: allora noi possiamo entrare in comunicazione immediata con lo Spirito della Terra. Perciò non a capriccio la Natività nel Signore e stabilita nell'epoca dei giorni più brevi e delle notti più lunghe; ciò dipende dai principi dell'iniziazione; e noi vediamo un fatto spirituale della più alta importanza collegato con l'accorciarsi dei giorni e l'allungarsi delle notti; sentiamo che in quell'avvenimento vi è un'anima, l'anima più elevata che possiamo sentire nell'evoluzione terrestre.
Quando i primi cristiani profferivano il nome del Cristo non pensavano a una dottrina o a una somma di pensieri. Sarebbe loro sembrato assurdo chiamare " Cristiano" chi soltanto professasse quelle dottrine. A nessuno sarebbe venuto in mente di negare che gli stessi insegnamenti si trovino anche in altre religioni; e nessuno avrebbe veduto in questo fatto qualche cosa di singolare. Soltanto oggi, appunto dalle classi colte, vien data particolare importanza al fatto che gli insegnamenti di Gesù Cristo sono conformi a quelli delle altre religioni. Ed è vero: a malapena si potrà trovare una sentenza che non sia stata già prima insegnata; ma non è questo che importa. Non è la dottrina sola che unisce il Cristiano col Cristo; non è Cristiano colui che crede alle parole, ma colui che crede allo Spirito di Cristo. Per essere cristiani bisogna sentire il vincolo vivo col Cristo che realmente dimora sulla Terra. Il solo riconoscere le dottrine di Cristo non vuol dire " predicare il Cristianesimo." "Predicare il Cristianesimo" significa vedere nel Cristo quello Spirito che or ora abbiamo designato quale il Reggente del Sole, e che nel momento in cui sul Golgota il sangue sgorgò dalle ferite, trasferì la sua attività sulla Terra rendendo così la Terra partecipe all'opera del Sole.
Per questa ragione coloro che dapprima annunciarono il Cristianesimo, non si tenevano molto a diffonderne solamente le dottrine; davano maggiore importanza all'annunciare la Persona di Gesù Cristo: " Noi L'abbiamo veduto quando fu con noi il suo sacro Monte! " Questo era l’importante, ch’Egli era là, ch’essi Lo avevano veduto. “Abbiamo toccato con le mani le Sue ferite!” Questo aveva valore per loro: L'averlo toccato. Da quell'avvenimento storico parte tutta la futura evoluzione dell'umanità sulla nostra Terra. Ciò fu sentito già allora; per questo dissero gli apostoli: " Grande importanza ha per noi l'esser stati con Lui sulla montagna; ma cosa grande ci sembra pure che la parola dei profeti si sia adempiuta in Lui, quella parola che veniva dalla stessa Verità e Sapienza. Per " profeti " s’intendevano allora quelli gli iniziati che potevano predire l'avvento del Cristo avendolo veduto nei sacri Misteri del Natale all'ora della mezzanotte. I primi apostoli del Cristo considerano l'avvenimento del Golgota come l'adempimento di quello che sempre si era saputo, e un grande rivolgimento avviene nei miei sentimenti di coloro che sanno.
Rivolgendo lo sguardo ai tempi anteriori al Cristo, troviamo l'amore collegato ai vincoli del sangue; e questo sempre più, quanto più veri saliamo indietro nei secoli. Ancora nel popolo Ebreo, dal quale il Cristo stesso ha origine, vediamo esistere l'amore soltanto tra consanguinei; soltanto quelli si amano che hanno vincoli di sangue tra loro; ed anche prima degli Ebrei, l'amore si fondava sempre sulla base naturale delle consanguineità. L'Amore spirituale, indipendente dal sangue e dalla carne ha cominciato ad esistere sulla Terra soltanto col Cristo; e in avvenire dovrà adempiersi il detto: " Chi non abbandona padre e madre, fratelli e sorelle, moglie e figli, non potrà essere il mio discepolo." Cioè colui che farà dipendere l'amore dalla base naturale, dai legami del sangue, non sarà Cristiano nel vero senso. L'amore spirituale, che qual grande vincolo di fratellanza unirà tutta l'Umanità, è il portato del Cristianesimo.
D'altra parte per mezzo del Cristianesimo deriva all'uomo anche la massima libertà e la massima individualizzazione. Ancora il Salmista diceva: " Io ricordo i giorni antichi, e medito sui tempi primordiali." Gli antichi rivolgevano costantemente lo sguardo verso gli antenati; sentivano il sangue degli avi scorrere ancora nelle proprie vene, e il proprio Io intimamente legato a quello dei loro predecessori. Ancora gli antichi Ebrei quando volevano esprimere a sé stessi questo sentimento, pronunziavano il nome di Abraham perché sentivano il loro Iddio nella corrente comune di sangue che derivava da Abramo. Quando l'Ebreo voleva esprimere ciò che aveva di più sacro, diceva: " Io sono uno con un Abramo " e quando il corpo fisico moriva, si diceva che l'anima ritornava nel grembo di Abramo, ciò che ha a un senso recondito molto profondo.
E allora non esisteva ancora quella individualizzazione che c'è avvenuta nella coscienza umana per mezzo del Gesù Cristo. Per mezzo del Cristo è penetrata nell'uomo la cognizione cosciente del' "Io sono." Prima non si sentiva ancora la piena divinità dell’intima divina entità dell'uomo. Sentivano l' "Io sono " ma lo ricollegavano ai propri antenati, lo sentivano nel sangue comune a loro a tutti sin dai tempi di Abramo. Venne allora Gesù Cristo, recando la coscienza che esiste nell'uomo qualche cosa di molto più antico, di molto più indipendente; che l' "Io sono" non contiene soltanto tutto ciò ch’è comune ad un popolo, ma anche ciò che esiste in ogni singola persona, e che anche l'amore dovrà dunque rivolgersi alle singole personalità, per virtù propria. E l'Io che oggi è racchiuso in ognuno di noi, circoscritto e limitato all'esterno, cerca l'amore spirituale al di fuori di sè.
Non col padre che era in Abramo, ma col Padre spirituale dell' Universo si sente unito quest’Io. "Il mio ed il padre siamo uno." Con queste e con parole ancora più profonde (benché questi siano le più importanti perché aprono meglio alla comprensione) Cristo cercò di chiarire agli uomini come esista qualche cosa di più profondo di quello che esprimevano dicendo: "Io già ero in Abramo." Egli dichiarò loro che l' "Io sono" esisteva prima di Abramo, derivando da Dio medesimo. "Prima di Abramo era " Io sono." Così suona il testo originale, e non come generalmente si legge; " Prima che Abramo fosse io sono " che non significa nulla. " Prima di Abramo era "io sono," cioè quella profonda entità spirituale che ognuno porta dentro di se.
Chi comprende queste parole, penetra profondamente nell'essenza del pensiero Cristiano e della vita Cristiana e comprende anche perché il Cristo ci dice: "Io sono con voi ogni giorno fino alla fine del mondo." Così dobbiamo pure sentire come vada interpretata l'antifona Natalizia che ci ripete ogni anno nella notte sacra Cristiana l'eterno segreto che l' "Io sono" è fuori del tempo. Non già si canta di Natale come un ricordo: "Oggi rammentiamo che Cristo nacque per noi" ma si dice ogni volta: " Oggi nasce Cristo per noi." Perché questo avvenimento è fuori del tempo; e ciò che una volta avvenne in Palestina, si compie nuovamente in ogni notte in Natale, per chi sa trasformare la dottrina in sensazioni e sentimenti dell'anima.
La contemplazione teosofica dell' Universo, ricondurrà l’uomo al sentimento mezzo di che cosa significhi veramente una simile festa. Non un'arida dottrina, non un'astratta teoria vuol essere la Teosofia; sua missione è di ricondurci pienamente alla Vita, di mostrarcela qual’è, non fredda e astratta, ma piena d’anima, in ogni sua manifestazione. Sua missione e di farci sentire l'anima della Natura, e nella cava spezzata dal martello, e nell'emigrazione degli uccelli, e nell'opera della falce sul campo, e nel levare e tramontare del Sole; anima sempre più profonda quanto più profondi sono gli avvenimenti osservati. E più profondamente che mai la sentiremo nei giorni culminanti dell’anno, nei giorni degli equinozi e dei solstizi che sono rappresentati dalle nostre feste, imparando nuovamente a comprendere la somma importanza ch’essi hanno anche per la vita dell’anima.
Così dalle nostre feste spirerà di nuovo un soffio vivificante le anime umane, e in quei giorni l’uomo tornerà a vivere intensamente della piena vita spirituale della Natura. Come un pioniere il teosofo deve essere tra i primi a sentire che cosa torneranno ad essere quelle feste quando l’uomo ne comprenderà di nuovo l’intimo spirito.
Se i teosofi cominceranno fin d’ora a sentire all’unisono con la Natura in questi giorni festivi, ricordandosi in tali solenni momenti che cosa la Teosofia porta agli uomini colla sua sapienza vitale, ciò sarà una delle forze che ricongiungeranno l’uomo all’Universo. Così l’anima umana, sarà “Vitae Sophia,” e più che mai nei giorni in cui l’Anima del mondo più specialmente verso di noi si rivolge e più intimamente si congiunge con noi.

Berlino,1907

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Reincarnazione

(da Wikipedia, l'enciclopedia libera)


Per reincarnazione si intende la rinascita dell'anima, o dello spirito di un individuo, in un altro corpo fisico, trascorso un certo intervallo di tempo dopo la sua morte terrena.

Il termine reincarnazione è considerato sinonimo di metempsicosi ed è riferito in particolare al mondo culturale e religioso orientale e a movimenti spiritistici.[1] Si ritrova anche il termine con significato simile di metemsomatosi, letteralmente «passaggio da un corpo all'altro».

Indice

* 1 Diffusione

* 2 Reincarnazione in filosofia

o 2.1 Pitagora

o 2.2 Empedocle

o 2.3 Platone

o 2.4 Neoplatonici

o 2.5 Cristianesimo

* 2.5.1 Controversie sulla reincarnazione

o 2.6 Età moderna

* 3 Reincarnazione nel Buddhismo

* 4 Reincarnazione nell'Induismo

* 5 Reincarnazione nell'Ebraismo

o 5.1 Secondo l'Arizal, lo Zohar ed altri

* 5.1.1 I modi della reincarnazione

* 5.1.2 Esperienze

* 6 Studi e ricerche

o 6.1 I risultati di J. B. Tucker

* 7 Nella letteratura e nell'arte

o 7.1 Metempsicosi nella mitologia classica

* 8 Note

* 9 Bibliografia

Diffusione

È una delle credenze più diffuse in ambienti legati all'Induismo, al Giainismo, al Sikhismo e al Buddhismo, anche se in quest'ultimo caso non riguarda la reincarnazione dell'anima ma quella del karma[2], ad alcune religioni africane e altre filosofie o movimenti religiosi. La maggior parte dei pagani contemporanei crede nella reincarnazione. Nell'antichità occidentale questa credenza era molto diffusa nelle scuole filosofiche, si ricorda lo stesso Platone. Divenne poi fondamentale nel misticismo neoplatonico pagano con Plotino, Giamblico e Proclo.

Nel secolo scorso, uno dei più importanti propugnatori della reincarnazione in Occidente è stato il filosofo austriaco Rudolf Steiner (1861-1925), nell'ambito della sua corrente di pensiero denominata antroposofia.

Più di recente, la dottrina della reincarnazione ha formato parte integrante del movimento New Age.

La reincarnazione è inoltre riconosciuta principalmente nelle società che praticano o praticavano la cremazione dei defunti, basata sulla convinzione che lo spirito del defunto dopo la morte si distaccasse dal corpo, ragion per cui quest'ultimo non avrebbe avuto alcun valore e poteva per questo essere cremato.

Reincarnazione in filosofia

La reincarnazione nella filosofia occidentale viene indicata con il termine metempsicosi (dal greco antico μετεμψύχωσις metempsicosis, "passaggio delle anime") intendendo la trasmigrazione dell'anima o dello spirito vitale dopo la morte in un altro corpo di essere umano, animale o vegetale.

Erodoto riferisce di una credenza nella metempsicosi presso gli egizi e ritiene che da questi si sia trasmessa ai greci. Gli storici hanno dimostrato che quanto riportato da questo autore non sia attendibile in quanto non è stata rinvenuta nessuna concezione simile alla metempsicosi nella religione egiziana.[3]

Pitagora

Nell'ambito della filosofia occidentale, Pitagora e la sua scuola sembrano essere stati fra i primi a sostenere la dottrina della reincarnazione o metempsicosi seppure sulla base di culti orfici preesistenti.

Aristotele[4] cita la metempsicosi come un "mito" della scuola pitagorica mentre Platone, il più noto per la sua dottrina della trasmigrazione delle anime[5] non nomina mai Pitagora ma piuttosto indica Filolao, membro della scuola pitagorica.[6]

Alcuni versi di Senofane, riportati da Diogene Laerzio[7] alludono alla metempsicosi riferendola a un aneddoto con protagonista Pitagora:

« Si dice che un giorno, passando vicino a qualcuno che maltrattava un cane, [Pitagora], colmo di compassione, pronunciò queste parole: "Smettila di colpirlo! La sua anima la sento, è quella di un amico che ho riconosciuto dal timbro della voce." » Oltre a questo riferimento lo stesso Diogene Laerzio scrive:

« Si narra che Pitagora sia stato il primo presso i greci ad insegnare che l’anima deve passare per il cerchio delle necessità e che veniva legata in vari tempi a diversi corpi viventi...[8] » Nell'orfismo e nella scuola pitagorica la metempsicosi era collegata alla loro cosmologia poiché essi sostenevano che questa avvenisse ciclicamente al compimento di un corso astronomico dell'universo.

L'uomo secondo i pitagorici è precipitato sulla terra a causa di una colpa originaria, per via della quale è costretto a trasmigrare da un corpo a un altro, non solo di umani ma anche di piante e animali. Per liberarsi da questa catena di morti e rinascite occorre ritornare allo stadio di purezza originaria dedicandosi alla contemplazione disinteressata della verità, praticando dei rituali esoterici di iniziazione e di catarsi, di purificazione. I pitagorici ritenevano che la vita del matematico fosse quella che più si avvicinasse alla condizione libera e divina in cui l'anima si trovava prima della sua caduta.

Empedocle

Empedocle nelle sue Purificazioni riprenderà la dottrina orfico-pitagorica della metempsicosi, sostenendo sulla scia di Parmenide che nulla si crea e nulla si distrugge, aggiungendo però che tutto si trasforma sulla base di due forze soprannaturali, Amore e Odio, le quali determinano l'aggregazione o la disgregazione dei quattro elementi. L'anima dunque è immortale, e la sua nascita e la sua morte sono solo aspetti passeggeri dovuti all'intervento di quelle due forze. L'uscita dal ciclo dipende per ognuno dal comportamento tenuto in vita.

Platone

Riappropriandosi della tradizione orfica e pitagorica, Platone fece della reincarnazione il perno della sua dottrina della conoscenza, basata sul concetto di reminiscenza o anamnesi.[9] L'esistenza della reincarnazione, secondo Platone, è testimoniata dal fatto che le nostre conoscenze del mondo sensibile si basano su forme e modelli matematici che non trovano riscontro in esso, ma sembrano provenire da un luogo iperuranio dove il nostro intelletto doveva averli contemplati prima di nascere. Nel mito del carro e dell'auriga, da lui esposto nel Fedro, egli immagina che l'anima, in seguito all morte, sia simile a una biga che cerca il più possibile di risalire al cielo iperuranio, dimora delle Idee, per assorbirne la sapienza. A causa della propria concupiscenza però, simboleggiata da un cavallo nero, l'anima è facilmente soggetta a precipitare nuovamente verso il basso, cioè a reincarnarsi. Chi è precipitato subito rinascerà come una persona ignorante o comunque lontana dalla saggezza filosofica, mentre coloro che sono riusciti a contemplare l'Iperuranio per un tempo più lungo rinasceranno come saggi e come filosofi. La reincarnazione consente secondo Platone di spiegare anche l'innatismo della conoscenza, concezione secondo la quale l'apprendimento consiste propriamente nel ridestarsi di un sapere già presente in forma latente nella nostra anima, ma che era stato dimenticato al momento della nascita ed era perciò inconscio: conoscere significa dunque ricordare.

Neoplatonici

Dopo Platone, la dottrina della reincarnazione o metempsicosi passerà nei neoplatonici e in varie correnti gnostiche, esoteriche ed ermetiche, proprie del tardo ellenismo. Filone di Alessandria fu tra i primi a conciliare la religione ebraica con la reincarnazione platonica.[10] Plotino, Giamblico, Proclo, ripresero sostanzialmente da Platone la concezione che l'anima si reincarni e ritorni sulla terra a causa di una colpa originaria, per espiare la quale occorre compiere un lungo cammino di ascesi, liberandosi dagli affetti terreni che altrimenti potrebbero indurre l'anima a restare vincolata alla materia.[11]

Cristianesimo

La reincarnazione fu accolta solo presso ambienti cristiani poi ritenuti eterodossi. Origene sembrava accettare la possibilità di una preesistenza dell'anima anteriore alla nascita,[12] ma contestava che lo spirito umano potesse reincarnarsi nel corpo di animali. In seguito la reincarnazione fu ribadita dal filosofo Scoto Eriugena.[13] Secondo i sostenitori della reincarnazione nel Cristianesimo,[14] alcuni passi del Vangelo farebbero indurre questa possibilità, ad esempio:

* Quando Gesù chiede agli apostoli: «Chi credete che io sia?», essi rispondono: «Alcuni dicono che sei Giovanni Battista, altri Elia ed altri Geremia o uno dei Profeti».[15] Ciò testimonierebbe l'accettazione della possibilità che un profeta del passato potesse reincarnarsi nel Cristo.

* L'episodio della trasfigurazione sul monte Tabor: «“Ma io vi dico che Elia è già venuto e non lo hanno riconosciuto”, allora i discepoli compresero che aveva parlato di Giovanni il Battista».[16]

* «“Tutti i profeti e la legge hanno profetato fino a Giovanni e, se volete accettarlo, egli è quell’Elia che doveva venire”».[17]

* Quando i farisei interrogano il cieco che annuncia la guarigione: «“Tu sei venuto al mondo ricoperto di peccati e vuoi farci da maestro”».[18]

* Quando i farisei interrogano il Battista su chi egli sia e con quale autorità compia il suo ministero, gli prospettano tre personaggi di cui uno sicuramente morto ovvero Elia, il Messia o il Profeta.

* Nell'incontro con Nicodemo Gesù sembrerebbe suggerire una rinascita immediata ovvero una conversione dell'anima all'ipotesi di reincarnazione.

Anche in un testo gnostico denominato Pistis Sophia verrebbe prospettata la possibilità della reincarnazione, sempre però in vista di un suo superamento finale.Va però precisato che tra i tanti testi gnostici ed apocrifi la quasi totalità di questi, riprende l'idea della rinascita in questa vita(come detto sopra o in[19]) e non in un'altra.

Controversie sulla reincarnazione

Alcune delle prime sette Cristiane come i Sethiani, e a seguire la corrente gnostica di Valentino, credevano nella reincarnazione. Probabilmente, nel clima del sincretismo ellenistico, la reincarnazione era insegnata da alcune delle stesse chiese cristiane, ma a causa di pregiudizi o omissioni di copiatura dei testi, questi insegnamenti sarebbero andati persi o esposti in maniera oscura[senza fonte]. Fra le varie testimonianze vi è quella di San Gregorio Nisseno, fratello minore di Basilio di Cesarea, che affermò: «È una necessità di natura per l'anima immortale essere guarita e purificata, e quando questa guarigione non avviene in questa vita, si opera nelle vite future e susseguenti»[20]. Così Giustino: «Alcune anime che si credono indegne di vedere Dio a seguito delle loro azioni durante le reincarnazioni terrene, riprenderanno i corpi»[21]. Origene sostenne che «in quanto a sapere perché l’anima ubbidisce talvolta al male, talvolta al bene bisogna cercare le cause in una nascita anteriore alla nascita corporea attuale»[21]. Persino Sant'Agostino, che pure respinse la dottrina platonica della reminiscenza, si domandava: «Non ho vissuto in un altro corpo prima di entrare nel seno di mia madre? Quando, Signore, io ho peccato, quand’ero nell’utero di mia madre o prima ch’io fossi?»[22].

Fra gli avversari della dottrina della reincarnazione vi fu invece Tertulliano. La disputa di fatto si concluse con la definitiva condanna della reincarnazione nel sinodo di Costantinopoli del 553. Per ordine dell'imperatore Giustiniano, che si riteneva capo supremo della chiesa d'oriente, venne condannata la dottrina di Origene con nove anatemi del patriarca Menas. Il primo di questi recitava:

« Contro chiunque dichiari o pensi che l'anima umana preesistesse, ossia che sia stata spirito o sacra podestà, ma che sazia della visione di Dio si sia volta al male e che in questo modo il Divino amore si sia raffreddato in lei e sia pertanto divenuta anima, precipitando per castigo nel corpo, anatema sia. » In seguito la credenza nella reincarnazione riemerse nelle eresie dei Catari e degli Albigesi, diffuse nella Linguadoca, e quindi nei pensatori cristiani rinascimentali.

Oggi la dottrina della reincarnazione è ufficialmente respinta dalla Chiesa cattolica[23] e dalla Chiesa ortodossa. Anche alcuni Evangelici e Fondamentalisti Cristiani considerano ogni fenomeno che riguarda la reincarnazione come inganno del diavolo.

Vari contemporanei hanno tentato una conciliazione tra cristianesimo e reincarnazione. Geddes Macgregor scrisse un libro intitolato Reincarnazione nella cristianità: una nuova visione della Rinascita nel pensiero Cristiano,[24] Rudolf Steiner è stato l'autore di Cristianità come fatto mistico, e Tommaso Palamidessi ha scritto Memorie di vite passate e le sue Tecniche, che contengono alcuni metodi attraverso i quali sarebbe possibile ottenere memorie dalle vite precedenti.[25]

Tra i gruppi che si considerano Cristiani e credono nella reincarnazione, si ricordano la Chiesa Cattolica Liberale, La Chiesa Unitaria, I Movimenti Spiritualisti Cristiani, la Compagnia Rosacruciana ed Lectorium Rosicrucianum.

Età moderna

Col Rinascimento tornarono in voga le dottrine platoniche della reincarnazione soprattutto in Giorgio Gemisto Pletone, Marsilio Ficino e Giordano Bruno, insieme alle correnti esoteriche dell'alchimia. Di nuovo nel Romanticismo la reincarnazione fu sostenuta da Schopenhauer, e da Giuseppe Mazzini.[26]

Reincarnazione nel Buddhismo

Più che di reincarnazione, nel Buddhismo sarebbe corretto parlare di "rinascita". Il Buddhismo infatti sostiene che non ci sia alcun sé, anima, spirito individuale o ātman e tantomeno che trasmigri di corpo in corpo.

Nella scuola Yogacara del Buddhismo Mahayana ha avuto origine la dottrina dell' ālāyavijñāna, la "coscienza deposito", l'ottava delle "coscienze", Vijñāṇa, quale responsabile del trasferimento dei semi, o impressioni, che gli atti volitivi lasciano sul loro autore, anche alle rinascite successive. Questa coscienza successivamente venne identificata da alcuni autori yogacara come uguale al concetto del Tathāgatagarbha, la "Matrice dei Così-Venuti/Andati", e pertanto è ritenuta assolutamente identica alla Vacuità. È da tener presente che la dottrina dell' ālāyavijñāna fu tuttavia criticata e rigettata dagli autori madhyamaka, un'altra importante scuola mahayana, come "sostanzialista" in quanto sostanziava la vacuità.

La legge che regola il ciclo di rinascite o samsara è il karma, altrimenti conosciuto come legge di causa ed effetto, in virtù della quale ciò che l'uomo semina raccoglierà. Diverse tradizioni buddhiste, in luoghi e tempi diversi, hanno posto l'accento sulla raggiungibilità del nirvana in modo istantaneo, in questa vita, o come processo lentissimo da compiersi in numerose vite, accentuazioni che dipendono anche dalle diverse culture e società in cui il buddhismo si è radicato

Reincarnazione nell'Induismo

Il Manusmṛti (Leggi di Manu) afferma esplicitamente: «Considera attentamente le trasmigrazioni degli uomini, cagionate dalle loro azioni colpevoli… lo spirito vitale che esce dal corpo per rinascere nel grembo di una creatura umana… le sciagure che soffrono gli esseri animati a cagione delle loro iniquità e la felicità inalterabile che invece provano nella contemplazione dell’essere divino che conferisce ogni virtù».[27]

Reincarnazione nell'Ebraismo

Per approfondire, vedi le voci Bereshit, Era messianica, Peccato originale e Tiqqun.

« Il Creatore del mondo e di tutte le anime sa quello che accadde tra gli individui nelle vite precedenti » (Zohar) La credenza nella reincarnazione non è estranea nemmeno all'Ebraismo. Definita Ghilgul (גלגול) è insegnata infatti dalla Qabbalah, la componente mistico-esoterica (una sorta di livello superiore, tutt'altro che eretico) della religione ebraica. La Qabbalah si basa in buona parte sul valore mistico-occulto dei numeri e delle lettere alfabetiche ebraiche, grazie al quale vengono estratti dai testi sacri dei significati nascosti e più profondi rispetto a quelli ottenibili dallo studio ordinario.

Benché sia una concezione non esplicitamente presente nella Torah scritta o nel Talmud, non secondo il livello di interpretazione letterale degli insegnamenti ma rivelata tramite i livelli più alti, si tratta appunto di un insegnamento rivelato nella dottrina esoterica e mistica suddetta tradizionalmente segreto e trasmesso oralmente da maestro a discepolo, linguaggio che ha cominciato ad essere divulgato pubblicamente a partire dal medioevo attraverso dei libri scritti con un linguaggio simbolico, pressoché incomprensibile ai profani.

* Il principale continuatore della dottrina della reincarnazione secondo l'esegesi ebraica è l'Arizal anche attraverso uno dei suoi testi edito anche in Inglese, Gate of reincarnation, dall'originale ebraico. Accettando il presupposto secondo cui non tutti gli uomini sono soggetti alla reincarnazione, spiegando poi che lo scopo del ghilgul è il tiqqun, in questo caso la rettificazione delle differenti anime Nefesh, Ruach e Neshamah, che possono essere raggiunte e completate in una stessa persona, egli enumera differenti concezioni di reincarnazione, facendone esempi pratici: dice ad esempio che ogni tipo di anima delle persone soggette alla reincarnazione dev'essere rettificato in vite differenti ed in rari casi tutte in una vita successiva soltanto e sottolineando anche che ne esiste una tipologia in cui due persone si corrispondono senza per forza di cose essere stretti dalla stessa anima venuta al mondo due volte o in più situazioni differenti; la persona nasce e muore in più vite; più anime di persone differenti potrebbero essere rettificate nel corso di un unico ciclo di reincarnazioni.

* Rabbi Shimon bar Yochay, rabbino del Talmud ed autore dello Zohar, fu a conoscenza del mistero della reincarnazione.

* Anche il Gaon di Vilna ha scritto un commento al Libro di Giona adattandolo alla reincarnazione secondo l'interpretazione iniziale che trova l'analogia di Giona con l'anima dell'uomo, della barca come il suo corpo, del mare come questo mondo e della Terra asciutta come il Mondo Futuro.

* Tra gli altri si ricordano Rabbi Isaia Horowitz e Rabbi Shlomo Alkabetz il quale afferma che vi sono tre tipologie di reincarnazione rapportate alle caratteristiche dei tre patriarchi del popolo d'Israele: ad Avraham corrisponde il tipo in cui nelle vite successive si compiono buone azioni e si realizzano i precetti non compiuti o quelli trasgrediti nelle vite precedenti; ad Isacco, simbolo di timore e potenza, corrispondono le vite di anime reincarnate in animali puri, "rettificate" dai peccati dagli Ebrei; infine a Giacobbe, segno di bellezza ed armonia, corrispondono vite successive, fino a 2000, in cui si possono compiere Mizvot non compiute precedentemente per mancanza di opportunità.

Secondo l'Arizal, lo Zohar ed altri

Per approfondire, vedi la voce Noè. Nel testo dell'Arizal e dello Zohar vengono espressi i seguenti princìpi:

* Il primo caso riguarda la corrispondenza tra l'anima di Adamo, primo uomo e padre dell'Umanità, ed Avraham, primo padre del popolo d'Israele da cui sorsero anche altri popoli. Considerando che Avraham ebbe maggiori meriti di Adamo, ci si chiese allora perché non fosse stato creato come primo uomo; i maestri mistici ed i rabbini del Talmud considerano che, nel caso Avraham avesse commesso l'errore di Adamo come primo uomo, sarebbe stato quasi impossibile il tiqqun, la rettificazione del peccato originale. Questo è un ulteriore motivo per cui Avraham e Sarah, corrispondendo appunto ad Adamo ed Eva ed associati al tiqqun suddetto, vennero sepolti in Machpelah anche assieme al primo uomo ed alla prima donna dell'umanità. Questa corrispondenza non vale come reincarnazione vera e propria, ma vuole evidenziare come valga lo stesso principio, ossia quello della crescita spirituale e morale delle vite successive.

La serva di Iesse è il Ghilgul di Agar.

* Un esempio analogo è quello della corrispondenza tra Mosè ed Abele o di Core e Caino; anche Esaù è il Ghilgul di Caino mentre Jetro è il Ghilgul soltanto del bene di Caino. Secondo un'altra opinione anche Hillel in parte corrisponde a Mosè.

* Un caso molto vicino alla concezione comune di reincarnazione è quello della corrispondenza di Pinchas [o Fineas] e del profeta Elia.

* Ancora il caso dell'affinità di reincarnazione tra Nimrod e Nabucodonosor.

* Balaam è il Ghilgul di Labano infatti da questo ereditò la magia, appresa anche dall'angelo caduto Azazel.

* Secondo l'Alshich haQadosh Rut è il Ghilgul della figlia primogenita di Lot; anche di Tamar.

Non è comunque esclusa la possibilità che una stessa anima possa vivere più vite in periodi storici differenti e sia soggetta a più rinascite dopo la morte:

* a questo proposito si parla di anime nuove che non subiranno o non hanno subito sino a quel momento vissuto alcun tipo di reincarnazione; esse sono più forti delle altre;

* vi è poi il caso di anime che, mancanti della forza necessaria ad ascendere al Cielo, vagano per il mondo a volte in gruppi in cielo, come turbini, ed a volte stazionando accanto ad animali, piante o oggetti inanimati per averne riferimento per il proprio movimento spirituale: l'Arizal ritiene che lo stazionamento ed il passaggio dal regno minerale al regno vegetale sino al regno animale e poi dell'uomo possa durare dai 20 anni o 100 sino a 1000 in ciascuno di essi;

* simile a quest'ultimo caso è quello della sosta di un'anima di una persona spirata presso un uomo vivente: non si tratta di un vero e proprio possesso del corpo di quest'ultimo quanto piuttosto di qualcosa simile ad un accompagnamento senza alcun danno per l'uomo o la donna che ne sono il riferimento sovrannaturale. Dunque l'accompagnatore ospitante e l'anima accompagnatrice dovranno avere molte somiglianze nella propria natura spirituale, anime dello stesso genere;

* l'ibbur riguarda il sostegno divino dato ad una persona con la collaborazione di un'anima di una persona spirata che sia Zaddiq, un giusto: viene insegnato in molti testi rabbinici, tra cui il Tanya, che gli Zaddiqim continuano la loro assistenza al mondo anche dopo la morte, ché anzi è ancor più completa perché libera dai peccati ed unita in modo perfetto all'Unità divina in collaborazione assoluta con Dio, ciò non escludendo l'impedimento di rivolgersi in preghiera a persone spirate o ad angeli, divieto che prevale secondo la fede unica in Dio il cui Regno regge ogni cosa, anche il Mondo dell'Aldilà. Spesso l'anima ospitata potrebbe invece necessitare del supporto dell'ospitante per un proprio tiqqun. Una volta rettificati tutti i gradi delle anime proprie, nell''Olam Ha-Ba quella persona potrà raggiungere lo stesso livello dello stesso Zaddiq o dei vari Zaddiqim che lo supportarono durante i cicli di reincarnazione e rettificazione delle anime. L'assistenza dell'anima di uno Zaddiq ad una persona viva viene paragonata al caso Talmudico del prestito il cui credito viene poi estinto nel Gan Eden secondo i meriti fatti ottenere al secondo dal primo attraverso le Mitzvot e di cui entrambi potranno godere i benefici in quanto entrambi capaci di ciò durante quel ciclo o i più cicli di reincarnazione.

Uno degli esempi di ibbur è quello dei figli di Giacobbe sui principi delle dodici tribù d'Israele entrati ad esplorare la Terra d'Israele per ordine di Mosè: essi furono loro di supporto sino a quando decisero però di parlare male della Terra d'Israele, ciò avvenne da parte di tutti i principi ad esclusione di Caleb e Giosuè; dei colpevoli l'Arizal dice che vennero abbandonati dal supporto delle anime dei figli di Giacobbe loro assegnato e questa maldicenza fu infatti uno dei peccati principali che impedirono poi a quella generazione di entrare in Terra d'Israele.

Le discussioni ammettono 3 possibili cicli di reincarnazione per persone non rette nei casi in cui ve ne sia necessità, numero, anche questo, che ha rilevanza simbolica anche secondo l'aspetto del ciclo di vita vissuto. Per le persone rette può avvenire un numero superiore di reincarnazioni;

* vi è poi l'Yibbum che, precetto della Torah oggi non più possibile per insufficienza nei livelli di purità e santità, riguarda il matrimonio di un uomo con la sposa del proprio fratello dopo la morte di quest'ultimo: questo precetto veniva comandato non solo per onorare la memoria spirituale del fratello ma anche per rendergli meriti ed onori con la nascita di figli che poi sarebbero stati dunque discendenza sua. Sebbene non si tratti di reincarnazione, l'Arizal sottolinea che questo vale come suo paragone. L'Yibbum non presenta una reincarnazione all'interno della famiglia lasciata e ciò sebbene il cognato faciliti in questo modo una modalità simile alla reincarnazione ma di questa assente ed intesa come rettificazione per il fratello morto: l'Yibbum è necessario al fine di avere figli in nome del fratello che altrimenti sarebbe considerato morto senza una discendenza; particolare la tradizione secondo la quale il primo figlio nato da questa nuova coppia di sposi avrebbe ricevuto il nome del fratello che non riuscì ad adempiere in vita al precetto biblico della procreazione perché morto prima.

I modi della reincarnazione

Il processo di reincarnazione così descritto riguarda il tiqqun, la rettificazione dell'anima dai peccati commessi nelle vite precedenti non con l'intento di punire durante le vite successive ma con quello di purificazione ed aumento dei meriti: secondo questa teoria le vite successive delle sole anime coinvolte in questi cicli saranno sempre purificate dai peccati delle vite precedenti o attraverso la rinascita stessa o tramite il compimento di azioni che aggiungano un numero di meriti sempre maggiore. Non è presente quindi il rischio che gravi o lievi peccati commessi nelle vite precedenti possano influenzare il corso delle vite successive o, come anche i peccati o le sofferenze patite, possano danneggiare l'anima ospitata nel caso di un ibbur; anche per questo viene insegnato che è molto difficile che una persona divenga consapevole delle vite vissute in precedenza.

« ...preservando la misericordia per 1000 (2000) generazioni... » (Esodo 34.7) Secondo questo versetto (in ebraico per mille, ??? (alaf), al plurale, ?????, si può intendere duemila) per l'Arizal ci si riferisce al ciclo di reincarnazione dei retti che può contare sino a 2000 vite per una stessa persona mentre per i non retti vale il versetto che afferma: sino alla quarta generazione, contando quindi 3 reincarnazioni in un totale di 4 vite.

Vi possono essere quindi cicli di tre reincarnazioni ma si può arrivare sino a venti, trenta ed oltre: questo dipende dal tipo di reincarnazione, se si tratta di un caso tra i vari ibburim o tra i vari ghilgulim. La Qabbalah esclude quindi che un'anima di uomo o donna possa divenire, nella sua interezza, un essere completo differente come animali, piante o oggetti perché, ad esempio, di natura superiore a quella degli animali comunque esistente. Nel ciclo delle reincarnazioni la sola interazione tra uomini ed animali, piante o altro, come nel caso sopra descritto, avviene per "anime vaganti" che non sono ancora giunte in Gan Eden. Anche gli ebrei di oggi usano chiedere a Dio un sostegno spirituale per queste anime durante la Benedizione degli alberi, benedizione che viene effettuata al principio della Primavera di ogni anno.

Il motivo della reincarnazione come modo per poter rettificare la propria anima, secondo i meriti aggiunti e per acquisirne un numero più alto, passaggio aggiunto all'espiazione completa dei propri peccati solo dopo la morte nel Ghehinnom, è il privilegio di avere un'opportunità in più in un'altra vita anche per compiere maggiori buone azioni, in particolare quelle non compiute nelle vite precedenti; la ricompensa di questi sarà manifesta nell'era messianica e nell''Olam Ha-Ba in modo da potervi giungere completamente rettificata grazie al percorso durante la propria vita o le molte reincarnazioni, ciò anche per rettificare le trasgressioni compiute in precedenza; nel caso invece di un'anima di una persona non retta occorre invece un intervento divino di maggior forza individuato nell'espiazione nel Ghehinnom che ha una durata massima di un anno e che nella Tradizione ebraica, inteso come Inferno e Purgatorio contemporaneamente, permetterà a quest'anima di espiare grazie all'intervento divino suddetto per poi giungere comunque nel Gan Eden finalmente rettificata e purificata. Come detto quindi ciò non esclude che anche l'anima di chi è sottoposto a reincarnazione debba espiare i propri peccati nel Ghehinnom infatti nelle vite successive, oltre a meriti comuni, si deve aderire a quelli mancati precedentemente.

Anche se per motivi differenti, similmente l'Arizal ammette che l'uomo soltanto è passibile di reincarnazioni perché il fuoco dello studio della Torah lo protegge dal fuoco del Ghehinnom. Questo studio per la donna non è considerato obbligo quindi essa è soggetta, dopo la morte, all'espiazione dei peccati tramite il fuoco del Ghehinnom e non attraverso reincarnazioni successive.

La donna non è quindi soggetta al ciclo delle reincarnazioni anche perché più fragile dell'uomo e quindi con un bisogno maggiore della protezione e dell'intervento divino. In alcuni casi eccezionali, come non essere riuscita ad avere figli e per aver avuto rapporti sessuali proibiti con altre donne, è necessaria la reincarnazione per la gravità del peccato commesso.

L'espiazione dei peccati nel Ghehinnom può valere anche per gli uomini.

Quando l'era messianica sarà completata, e tutto il mondo vivrà nella completa rettificazione, non vi sarà più bisogno del ciclo delle reincarnazioni. Nella resurrezione, con la rivelazione del Messia, potrà succedere che due corpi possano ricevere comunque le due anime distintamente anche se della stessa persona sostenuta da un ibbur soltanto che ha contribuito alla rettificazione delle due stesse. Un corpo di una persona potrà ricevere soltanto un'anima definita Nefesh mentre un altro potrà ricevere sia Nefesh che Ruach o Nefesh, Ruach e Neshamah anche rettificate nel corso di una stessa reincarnazione se espressioni originarie di quell'anima principalmente attiva alla sua creazione al principio di tutto; può succedere poi che in seguito ad una reincarnazione in un secondo corpo l'anima della persona nell'era messianica risorga nel secondo corpo e non più nel primo maggiormente macchiato dalle colpe della prima vita e ciò nel caso di un'unica anima nefesh in entrambe le vite.

I maestri insegnano che prima di nascere le anime di ogni sposo ed ogni sposa sono unite sino a quando, una volta presenti nel mondo, in vita Dio si occupa di farli incontrare affinché si riuniscano come individui nuovamente divenuti un'entità completa. In un commento ad una parte del Talmud, a tal proposito l'Arizal spiega che il versetto che afferma come Dio li riunisca contro la loro volontà non si riferisce ad anime gemelle ma all'anima di un uomo reincarnato che, per adempiere alla Mizvah della procreazione, si riunisca con una donna diversa da quella a cui era unito nel corso della prima vita, sua sola anima gemella. L'Arizal insegna infatti che la potenza della Volontà divina è tale da permettere che essi possano vivere assieme in modo corretto e conforme accettando poi senza astio o disprezzo questa possibilità; ciò è vero alla luce dell'insegnamento secondo cui soltanto l'uomo, e non la donna, è soggetto alla reincarnazione. Questo tipo di coppia, riunita da Dio, nell'Halakhah presenta la medesima valenza giuridica del caso di matrimonio tra individui le cui anime erano unite prima di nascere.

Vi è poi il caso di due coniugi che si reincarnano per non essere riusciti ad avere figli, obbligo biblico, nella vita precedente: essi si riuniranno rincontrandosi anche nella reincarnazione al fine di adempiere all'obbligo di questa Mizvah. Talvolta però si reincarnano in periodi storici differenti.

Esperienze

Chaim Vital racconta che spesso il suo maestro Arizal scorgeva anche le anime di Zaddiqim o studiosi di Torah stare in piedi sulle loro tombe inoltre poteva intravedere anime sostare presso oggetti inanimati ed indicare i nomi di tali persone nonché le loro mancanze in vita per quelle reincarnazioni.

Studi e ricerche

Nell'ambito dell'esercizio della professione medica, alcuni professionisti hanno riportato i risultati di estese ricerche basate sulla presunta regressione a vite passate, ottenuta con l'ipnosi o con tecniche di rilassamento guidato, nel corso delle quali i soggetti coinvolti descrivevano con notevoli dettagli esperienze di vita che si sarebbero svolte sino a diversi secoli, o anche millenni, anteriori alla loro nascita. Tra questi studiosi si possono ricordare:

* Helen Wambach, che ha condotto studi su 1.088 soggetti;[28]

* Brian Weiss, che ha pubblicato diversi best seller sulla sua attività di psichiatra basata sulla tecnica della regressione;[29]

* lo psichiatra Ian Stevenson;[30]

* Jim B. Tucker, direttore della clinica di psichiatria infantile della Virginia University.

Quest'ultimo ha effettuato uno studio in particolare sui bambini che affermano di ricordare vite precedenti. Nel suo saggio Life before Life: a scientific investigation of children's memories of previous life,[31] egli descrive quarant'anni di ricerche compiute in tal senso. I bambini da lui analizzati provengono da ogni angolo del pianeta e da diverse tipologie di famiglia. L'età di questi bambini varia dai due ai sei anni, dopodiché tali ricordi verrebbero dimenticati. I ricercatori, una volta raccolte le testimonianze, sono andati personalmente nei posti indicati dai bambini ad incontrare le persone di cui avevano parlato, riscontrando, a loro dire, che avevano detto la verità.[32] Psicologi come Tucker analizzano i casi di centinaia di pazienti, e spesso per verificare le informazioni che i bambini ricordano devono interrogare almeno una cinquantina di persone diverse. Stevenson per primo fa notare che organizzare una truffa coinvolgendo più di cinquantamila persone è quantomeno difficile, se non impossibile.

I risultati di J. B. Tucker

Secondo la testimonianza di Jim B. Tucker, i bambini analizzati non usano mai l'espressione "vita precedente" pur descrivendo con chiarezza ciò che sarebbe loro avvenuto in passato. Un bambino turco, per esempio, avrebbe fornito molti dettagli circa la sua famiglia passata residente nella città di Istanbul, che si trovava molto lontano dal luogo dove abitava adesso, aggiungendo particolari di parenti avuti in passato, citando i loro nomi armeni assieme ai relativi indirizzi di casa. Ricordava anche i nomi della moglie e dei figli.

Non tutti i bambini però ricorderebbero le vite precedenti. Tucker avrebbe notato che nel 70% dei casi i bambini ricordano morti avvenute soprattutto in circostanze non naturali, quali incidenti, episodi traumatici improvvisi e morte violenta.

A fronte dei suoi vari esperimenti, che lo hanno portato a ritenere che la coscienza non sia un prodotto del cervello bensì dell'anima, e che quindi sia immortale, Jim B. Tucker non vuole usare il termine "reincarnazione", pur affermando che tale possibilità non possa essere esclusa del tutto; egli preferisce parlare di prove concrete sulla sopravvivenza delle emozioni umane in presenza di specifiche circostanze.

Nella letteratura e nell'arte

Metempsicosi nella mitologia classica

Poseidone fece reincarnare il figlio Cicno, che era stato ucciso da Achille durante la guerra di Troia, in un cigno. L'episodio è narrato nelle Metamorfosi di Ovidio: « Con le ginocchia il corpo, e con la palma / Con più forza, che può, stringe la gola, / Tanto, che toglie quella strada à l’alma, / Che suol dar fuor lo spirto, e la parola. / Al fin con questo modo à lui la palma / De la vittoria il forte Achille invola./ Cerca poi trargli il vincitor Acheo / L’arme, perpetua à lui gloria, e trofeo. / Ma tosto, ch’apre l’arme, intende il lume / Quivi entro, volar fuor vede un augello. / Spiega lontan da lui le bianche piume, / Grande, ben fatto, à maraviglia bello: / Il Re, che tributario have ogni fiume, / Volle, ch’entrasse in quel corpo novello. / Hor le cagnate sue terrene some / Non ritengon di prima altro, che ’l nome.»[33]

Un altro grande protagonista della guerra di Troia, anch'egli semidio e vittima di Achille, fu egualmente fatto reincarnare dopo la morte: Memnone, il bellissimo re degli Etiopi, che era figlio di Eos (anche stavolta la fonte è il testo ovidiano). La dea era inconsolabile, e Zeus decise di alleviarne il dolore: mentre la pira stava per ardere la testa e il corpo di Memnone (il sovrano era morto tramite decapitazione) si levò improvvisamente dalle fiamme uno stormo di uccelli. Memnone da quel momento avrebbe vissuto in ognuno di essi, e per sempre: «De la prima favilla ogni sorella/Nel revoluto fumo un’alma informa./Da questo, e da quel lato esce una ascella,/ Fin che di vero augel mostra la forma./Quante scintille alzar fa la facella,/Tante in augelli il fato ne trasforma/Nel modo stesso in aere in un momento/Se ne veggon formare, e cento, e cento./Sì gran numero al ciel se’n vede asceso,/Che fan quasi oscurar ne l’aere il giorno./Fan sopra mille giuochi al rogo acceso,/Indi il giran tre volte intorno intorno./Tre volte il grido lor fan, che sia inteso/Insino al piu beato alto soggiorno/L’essercito in due campi poi si parte/E forman le battaglie al fiero Marte./Indi crudeli ad affrontar si vanno,/E con gli urti, e co’ rostri, e con gli artigli,/Et ogni estrema ingiuria empi si fanno/Del bruggiato Mennone in novi figli./Tanto che molti con disnore, e danno/Del proprio sangue lor cadon vermigli./E fan l’essequie con la lor tenzone/A la cognata polve di Mennone.»[33]

Nel VI libro dell'Eneide, durante la discesa agli Inferi di Enea e della Sibilla Cumana, dalle parole che Anchise rivolge al figlio traspare la concezione pitagorico-orfica di Virgilio: Anchise descrive una teoria dei cicli e delle rinascite spiegando come molte ombre dei Campi Elisi si immergano nel fiume Lete per dimenticare le vite precedenti e poter dunque reincarnarsi in nuovi corpi terreni.[34] Secondo vari studiosi, la descrizione della sofferenza di queste anime per gli errori delle vite passate (quisque suos patimur Manes, v.743) è una reminiscenza del Gorgia platonico, dove si parla delle sofferenze animiche di purificazione per un perfezionamento della vita successiva.[35]

Note

1. ^ Vedi lemma "Reincarnazione" in Vocabolario Treccani

2. ^ «Dottrinalmente il Buddhismo non insegna né l'esistenza dell'anima, né la sua trasmigrazione in successive incarnazioni, ma insiste sulla trasformazione dinamica, o "flusso" (sams?ra) di esistenze. Tuttavia, nella sua influenza sul pensiero popolare, questa dottrina è assimilata a ogni altra dottrina sulla trasmigrazione» (M. Anesaki, alla voce "Trasmigration (Buddhist)" in The Buddhists. Encyclopaedia of Buddhism, a cura di Subodh Kapoor, Cosmo Publications, New Delhi 2001, vol. V, pag. 1451).

3. ^ Fabio Mora, Religione e religioni nelle storie di Erodoto, Edizioni universitarie Jaca, 1986 pagg.115-123

4. ^ Aristotele,De anima 407b20 = 58 B 39 DK, p. 955 tr. it.

5. ^ Platone, Menone, 81 AD; Fedone, 70 A, ecc.

6. ^ Platone, Fedone, 61b

7. ^ Diogene Laerzio,21 B 7 DK in VIII, 36, pp. 301-303 tr. it.

8. ^ Cfr. Edoardo Bratina Vite e dottrine dei filosofi, La Reincarnazione, documentata dalla religione, filosofia e scienza, ETI, Trieste 1972, pag. 27.

9. ^ Cfr. Fedone, 75 d.

10. ^ «Le anime disincarnate sono distribuite in vari ordini. Il dovere per alcune di queste è di entrare in corpi mortali e dopo un certo tempo sono nuovamente libere. Quelle dotate di una natura più divina sono sciolte dai vincoli terreni» (Filone d'Alessandria, in E. Bratina op. cit., pag. 37).

11. ^ «È una credenza universalmente ammessa che l’anima che ha commesso peccati li espia, subendo una punizione nel mondo invisibile e poi passa in nuovi corpi», tratto da Plotino, Enneadi (in E. Bratina, op. cit., pag. 34).

12. ^ Cfr. Edmond Bertholet, La Reincarnazione nel mondo antico, ed. Mediterranee, 1978.

13. ^ Cfr. E. Bertholet, op. cit., pag. 280.

14. ^ Prophet, Reincarnazione. L'anello mancante del cristianesimo (v. bibliografia).

15. ^ Matteo XVI, 13-14.

16. ^ Matteo XV, 10-15.

17. ^ Matteo XI, 13-14.

18. ^ Giovanni IX, 34.

19. ^ Giovanni, III.

20. ^ Gregorio Nisseno, Grande discorso catechetico, tom. III.

21. ^ a b Cfr. Edmond Bertholet, La Reincarnation, Paris, 1972.

22. ^ Agostino d'Ippona, Le Confessioni, I, 6.

23. ^ Secondo la teologia cattolica in realtà Cristo non ha mai parlato di reincarnazione, ma soprattutto questa è in contraddizione con la Resurrezione. Ma poi:

o Nell'episodio del cieco nato, sono i discepoli che pensano che possa aver peccato lui od i suoi genitori. E' Gesù che nel versetto successivo chiarisce questa questione presente nella mentalità ebraica: «[3]Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio.». Dunque questo male fisico non era dovuto ne per i suoi peccati, ne per quello dei suoi genitori, contrariamente a quanto loro pensavano.

o In Matteo (XII, 31-32) Gesù dice: «[31]Perciò io vi dico: Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. [32]A chiunque parlerà male del Figlio dell'uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro.». Dunque ne in questa vita, ne in quella futura che verrà dopo la morte, ovvero nell'aldilà.

o Nel vangelo di Luca, il buon ladrone viene portato subito in Paradiso, essendosi pentito e riconosciuto peccatore di fronte a Gesù. «[42]E aggiunse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». [43]Gli rispose: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso».

24. ^ G. Macgregor, Reincarnation in Christianity. A new Vision of the role of rebirth in christian thought (v. bibliografia).

25. ^ Tommaso Palamidessi, Memorie di vite passate e loro tecniche, Edizioni Archeosofica, 1977.

26. ^ «Noi crediamo in una serie infinita di reincarnazioni dell’anima, di vita in vita, di mondo in mondo, ciascuna delle quali rappresenta un miglioramento ulteriore…» (Mazzini, in E. Bratina, op. cit., pag. 70).

27. ^ E. Bratina, op. cit., pag. 21.

28. ^ Cfr. Helen Wambach, Storie vere di viaggi meravigliosi dentro la vita prima della nascita, edizioni Mediterranee, 1991.

29. ^ Di seguito alcuni best seller di Brian Weiss editi da Oscar Mondadori: Molte vite, un'Anima Sola, 2008; Oltre le porte del tempo, 2000; Molte vite, un solo amore, 1996;

30. ^ Ian Stevenson, Reincarnazione, 20 casi a sostegno, Armenia edizioni, 2005.

31. ^ Jim B. Tucker, Life before Life: a scientific investigation of children's memories of previous life, edito da St. Martin's Griffin, 2008 ISBN 0-312-37674-X.

32. ^ Fonte: Maurizio Molinari, Gli scienziati studiano i bimbi che ricordano le loro vite precedenti, su Tuttoscienze, inserto del quotidiano La Stampa del 21 giugno 2006.

33. ^ a b Ovidio, Metamorfosi, libro XII, traduzione di Giovanni Andrea Dell'Anguillara

34. ^ Virgilio, Eneide, Mondadori 1989, Commento p.772

35. ^ Ibidem, p.773

Bibliografia

* Elizabeth C. Prophet, Erin L. Prophet, Reincarnazione, l'anello mancante del cristianesimo, traduzione italiana a cura di A. Carbone, Armenia, 2003 ISBN 88-344-1478-0

* Battista Mondin, Preesistenza Sopravvivenza Reincarnazione, Àncora, Milano 1989

* Geddes MacGregor, Reincarnation in Christianity. A new Vision of the role of rebirth in christian thought, The Theosophical Publishing House, Wheaton, Ill. U.S.A 1986

* Christoph Schönborn, Risurrezione e reincarnazione, trad. it., Piemme, Casale Monferrato 1990

* Maria Penkala, La reincarnazione. Prove e dottrine di ogni tempo e luogo, Mediterranee, Roma 1993 ISBN 88-272-0226-9

* Rudolf Steiner, Cristianesimo come fatto mistico e i misteri antichi, editrice Antroposofica, 2006

* Hans Urs von Balthasar, La metempsicosi, in: Homo creatus est. Saggi teologici V, trad. it., Morcelliana, Brescia 1991, pp. 111–130

* Tigunait Rajmani, Karma e reincarnazione, Laris, 2008

* Edouard Bertholet, La reincarnazione nel mondo antico, trad. it., edizioni Mediterranee, Roma 1978 ISBN 88-272-1022-9

* Jim B. Tucker, Il bambino che visse due volte, Sperling & Kupfer, 2009



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Il "PATER NOSTER" secondo Rudolf Steiner

     Il “Padre Nostro” ci dice Steiner in origine "non era altro che una meditazione. La meditazione è più basata sul pensiero, e con essa, mediante i pensieri delle grandi guide dell' umanità, si cerca di armonizzarsi con le correnti divine che attraversano il mondo. Con la preghiera si raggiunge lo stesso risultato in un modo più basato sul sentimento". (R.Steiner: Il Padre nostro – Antroposofica,1994, p.7)

Quindi ha un valore più elevato della semplice preghiera, possiede profondi significati su cui meditare.
Secondo Steiner il “Padre nostro” si articola, dopo l’ invocazione iniziale, in sette formule:

Tre sono riferite a quanto è in potenza nell’ Io:

• Sé spirituale (Manas)
• Spirito vitale (Buddhi)
• Uomo spirituale (Atman)

Quattro si riferiscono invece alle “quattro parti costitutive inferiori” dell'uomo:

• corpo fisico;
• corpo eterico;
• corpo astrale
• ego (riflesso psico-fisiologico dell’ Io).

“Padre nostro che sei nei cieli”

Padre non solo mio ma di tutti gli uomini. Tutti gli uomini sono dunque miei fratelli.
“Iddio disse a Mosè: “Io sono quegli che sono”.
Poi disse:
"Dirai così ai figliuoli d’ Israele: L’ Io sono mi ha mandato da voi” (Es 3,14).
L’ Io-sono dunque è padre di tutti, l’ Io-sono è dunque l’ Io di tutti: l’Io universale.
L’ Io-sono è “nei cieli” perché è al di là della soglia che divide la sfera dell’essere da quella dell’ esistere. Normalmente, sperimentiamo la prima durante il sonno, prima della nascita e dopo la morte, mentre sperimentiamo la seconda durante la veglia e nel corso della vita tra la nascita e la morte. L’ antichità conosceva l’ essere, ma non lo conosceva ancora come Io (come soggetto);

"Sia santificato il Tuo nome"

“Sia santificato l’Io conoscendolo come spirito al di là dello spazio-tempo.
“Voi siete dèi” (Gv 10,34):
L’ Io che abitualmente conosciamo non va infatti al di là, nello spazio, del corpo fisico e, nel tempo, della nascita e della morte. Per questa coscienza dell’ Io (che giudica “secondo la carne”) l’ego è una realtà “profana” (astrattamente esistenziale), e non uno spirito “santo”. Per “ santificare” l’ Io occorre dunque “santificare” la coscienza dell’ Io.
Lo Spirito Santo, è “ Spirito di verità”, spirito gnostico
"Egli vi insegnerà ogni cosa”, “Egli vi guiderà verso tutta la verità" - (Gv 14,26 e 16,13).
Come nessuno può andare al Padre se non attraverso il Figlio, così nessuno può andare al Figlio se non attraverso lo Spirito Santo
"In verità, vi dico: chi accoglie colui che io manderò, accoglie me, e chi accoglie me, riceve colui che mi ha mandato" –(Gv 13,20).

"Venga il Tuo regno"

E’ il regno dei regni: ovvero, il regno che crea tutti i regni, fondandone e governandone l’ armonia.
"Venga il tuo ordine": l'ordine del sentire in grado di conoscere il valore, il contenuto o la sostanza morale di tutto.

"Sia fatta la Tua volontà"

L’ agire spesso ci è imposto dalla volontà della costituzione (fisica), del temperamento (eterico) o del carattere (astrale), e non posto dalla volontà dell’ Io che siamo. L’ Io individuale che siamo è però l' Io universale che E'.
"E la gloria che tu mi desti, io l' ho data loro, affinché siano una sola cosa, come noi siamo una cosa sola, io in essi e tu in me"- (Gv 17,22).
Perché sia fatta la (vera) volontà dell’ Io individuale occorre dunque che sia fatta la volontà dell’ Io universale. Possiamo dire perciò: “Perché sia fatta la mia volontà, voglio che sia fatta la Tua”.
La volontà dell’ Io che l’ uomo crede sua non lo è. l'uomo deve osservare liberamente il volere dell’ Io universale che è immanente in lui.
“Dunque non son più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Gal 2,20).

“Come in cielo così in terra”

Come è l’Essere (che è al di là della soglia) così dovrebbe essere l’ esistere (che è al di qua della soglia). Senza l’ Essere, l’ esistere è “vuoto”. L' Essere riempie di "grazia" il creato che altrimenti sarebbe nulla.

“Dacci oggi il nostro pane quotidiano”

Oltre “il cibo che dura per la vita eterna”, dacci il “cibo che perisce” (Gv 6,27): dacci cioè il necessario per vivere nel corpo fisico, ma non per il corpo fisico (che “perisce”). Consentici, in altre parole di mangiare per vivere, e non di vivere per mangiare.

"Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori"

"In ogni scienza occulta furono sempre indicati come 'debiti' gli errori commessi contro la comunità e derivati da manchevolezze del corpo eterico". (R.Steiner: Il Padre nostro – Antroposofica,1994, p.17)

"Non ci indurre in tentazione"

"La tentazione è ciò per cui il singolo prende su di sé una colpa personale" (R.Steiner: Il Padre nostro – Antroposofica,1994, p.17).
Le tentazioni seducono e allontanano l’ Io dalla propria meta conoscere se stesso dunque Io-sono immanente.

"Ma liberaci dal male"

Liberaci dalle conseguenze del peccato. Cioè il baratro in cui l'uomo è precipitato per non avere saputo gestire la conoscenza dell'albero della conoscenza.


Padre che fosti, che sei e sarai
Nella nostra più intima essenza.
Il Tuo Nome venga da noi
Glorificato e santificato.
Il Tuo Regno si estenda
Attraverso le nostre azioni
E il nostro modo di vita.
La Tua Volontà venga da noi
Attuata quale Tu l’ hai posta
Nella nostra intima essenza.
L’ alimento dello Spirito,
Il Pane di Vita, Tu porgi
In sovrabbondanza per tutte
Le mutevoli situazioni dell’ esistenza.
Concedi che la nostra misericordia
Verso gli altri serva da pareggio
Dei peccati da noi compiuti
A danno del nostro essere.
Non lasciare che il Tentatore
Agisca su di noi oltre
La misura delle nostre forze
Poiché in Te, o Padre santo,
Non esiste tentazione alcuna,
Essendo il Tentatore solo
Illusione e inganno dal quale
Tu ci liberi, grazie alla luce
Della conoscenza di Te, nel cuore.
La Tua potenza e magnificenza
Agiscano su di noi, dall’ alto,
Attraverso i tempi dei tempi.
Amen.

Rudolf Steiner
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Mircea Eliade e Pierre Teilhard de Chardin
(Marco Martini)

Published in: Un futuro per l’ uomo, n. 2 (luglio/dicembre) 2000, pp. 67/79

     Nel 1856, ad opera di Max Müller, apparve quella che può essere considerata la prima opera importante nel campo delle religioni comparate: Essays in comparative mythology. A quel tempo gli studiosi avevano già compreso che i patrimoni religiosi dei vari popoli – Bibbia compresa - , si erano formati in epoche in cui l’ uomo si esprimeva ancora per simboli, secondo ricorrenti e comuni schemi archetipici di una coscienza che non aveva ancora conquistato il senso della storia e della scienza. Occorreva mettersi subito al lavoro per ricostruire il vero succedersi delle idee e delle credenze religiose dell’ uomo. A partire dal 1865 Edward Burnett Tylor, con una serie di articoli, conferenze e libri che si concluse con la pubblicazione di Primitive culture (1871), pubblicò le sue teorie a riguardo. Pur nella diversità delle varie scuole di pensiero (1), nel complesso la Storia delle Religioni mostrava già allora una lenta e graduale ascesa, attraverso l’ evolversi di credenze basate sulle varie esperienze vissute dall’ uomo e profondamente concatenate l’ una all’ altra; una graduale conquista umana insomma, e non un buio di immensa durata succeduto ad una caduta iniziale ed illuminato poi dall’ Alto da un’ unica luce. Nella rilettura delle storie sacre trasmesseci, resa obbligatoria dalla scoperta della loro non-storicità, l’ accento non doveva più essere posto su presunte verità da custodire, ma sulle valorizzazioni religiose che l’ uomo aveva conferito alle varie esperienze compiute nel corso del suo processo di autocostruzione.

Teilhard e la Storia delle Religioni

     Padre Pierre Teilhard de Chardin, le cui teorie furono messe all’ indice dalla Chiesa cattolica (e lo sono tuttora) con un provvedimento che viene definito ‘monitum’, ebbe la fortuna di compiere i suoi studi teologici in Inghilterra, dove il fermento prodotto dalle idee germinate per merito di certe nuove discipline era tale da ripercuotersi persino entro le mura di un seminario gesuita. È comprovato che gli studi teologici di Teilhard ad Hastings (1908-1912) includevano la Storia delle Religioni e la discussione delle teorie di Émile Durkheim, celebre studioso delle strutture elementari del sacro. Il suo interesse verso l’ argomento fu tale che nel settembre del 1912 partecipò alla ‘Settimana di etnologia religiosa’ tenutasi a Lovanio, in Belgio. Proprio negli anni in cui Teilhard studiava a Hastings, anche i cattolici si gettarono nella mischia per merito di padre Wilhelm Schmidt, austriaco, che cominciò a pubblicare le prime puntate di un’ opera colossale che giunse a conclusione solo nel 1955, Ursprung der Gottesidee. Utilizzando i dati di alcune tribù che convogliavano le loro esperienze religiose in massima parte sulla figura di un Essere Supremo, Schmidt elaborò la teoria di un monoteismo primordiale rivelato, dal quale ci si sarebbe poi allontanati; tutti gli altri elementi riscontrabili tra i primitivi venivano considerati una degenerazione. Questa tesi, imperniata su una ‘caduta’ rispetto a leggi morali scolpite ‘ab initio’ nel cuore dell’ uomo da Dio, reinterpretazione del dogma del Peccato Originale alla luce dei dati storico-religiosi, si è poi dimostrata errata, soprattutto grazie alle analisi di un altro infaticabile studioso, Raffaele Pettazzoni, esposte in diversi libri e saggi a cominciare da L’ Essere celeste nelle credenze dei popoli primitivi, datato 1922.
     Ebbene Teilhard, senza avere probabilmente mai letto Pettazzoni ma forte della sua convinzione di scienziato e credente che «Dio non agisce in prima persona, ma fa sì che le Cose si realizzino da sole attraverso gli sviluppi dell’ opera della Natura» (2), non dette credito alla tesi di Schmidt: «Infatti, checchè ne dica la scuola di Padre W. Schmidt che ricorre ad una ‘rivelazione’ divina primordiale, per l’ uomo appena nato al pensiero riflesso, quale gesto può essere più istintivo di quello di animare ed antropomorfizzare in un grande Qualcuno tutto l’ Altro di cui scopre attorno a sé l’ esistenza, l’ influsso e le minacce? E non è forse proprio a questo stadio particolare d’ adorazione che troviamo ancora fermi i popoli socialmente meno evoluti della Terra?» (3). Teilhard aveva già letto Lucien Lévy-Bruhl (4), Bronislaw Malinowski (5), studioso soprattutto delle tribù della Melanesia, e conosciuto, come vedremo, Mircea Eliade. Ma già prima, come si legge nel suo Il fenomeno spirituale (1937), Teilhard aveva mostrato una perfetta comprensione delle società primitive e del modo in cui si erano evolute le idee nei primi raggruppamenti umani: «In gran parte, la morale è nata come una difesa empirica dell’ individuo e della società. Non appena gli esseri intelligenti sono venuti a contatto, dato che vi erano attriti, hanno sentito il bisogno di proteggersi contro i reciproci soprusi. E non appena si è rivelata, empiricamente, un’ organizzazione che garantiva a ciascuno più o meno ciò che gli spettava, questo stesso sistema ha sentito il bisogno di garantirsi a sua volta contro i mutamenti che fossero venuti a rimettere in questione le soluzioni accettate, e turbare l’ ordine sociale stabilito». Molti studiosi non accettavano e non accettano la realtà di determinanti biologiche e sociali nel processo di nascita ed evoluzione delle credenze religiose, di un uomo che raggiunge le vette dello Spirito sospinto dalle leggi della Materia.
     Le conclusioni degli studi di Storia delle Religioni furono sicuramente utili a Teilhard per non lasciarsi vincolare già in anni giovanili (1919) da una esegesi biblica che i teologi stanno superando solo oggi: «Le mitologie pagane ci fanno comprendere quanto la maniera cristiana comune di presentare le origini e le vicissitudini del mondo sia artificiale e infantile» (6). C’ è da rilevare però come Teilhard accettasse i risultati degli studi storico-religiosi ma, forte del suo Cristo Universale, non le conclusioni (pluralismi relativistici, riduzionismi, vaghi sincretismi, teorie della ‘morte di Dio’) che molti ne traevano: «Per via dello sviluppo assunto in Scienza dallo studio comparato delle religioni, il Cristianesimo, unanimemente considerato in Occidente, per quasi due millenni, come unico nella storia del Mondo, potrebbe sembrare, a prima vista, subire in questo momento una eclissi… Il Cristianesimo ritrova e consolida, invece, il suo posto assiale, il suo posto di guida, di freccia delle energie psichiche umane, purchè si consideri a sufficienza il suo straordinario potere di ‘panamorizzazione’». E precisa anche la fonte di questo primato di ‘panamorizzazione’, che è il suo «potere assimilatore, d’ ordine organico, integrante potenzialmente nell’ unità di un solo ‘corpo’ la totalità del genere umano» (7). Per Teilhard de Chardin la storia delle religioni non è che l’ ultima e più decisiva fase della medesima operazione: «In fondo, una cosa sola si fa, da sempre e per sempre, nella Creazione: il Corpo del Cristo» (8).

L’ interesse di Eliade per Teilhard

     Abbiamo accennato prima all’ incontro tra Teilhard e Mircea Eliade. I due si conobbero nel dopo-guerra a Parigi, dove Eliade era arrivato nel settembre del 1945 per iniziare ad insegnare alla Sorbona; il rumeno acquisì in breve tempo grande notorietà con il Trattato di Storia delle Religioni (1948) e con Il mito dell’ eterno ritorno (1949). «L’ ho visto due o tre volte – racconta Eliade di Teilhard – nella sua stanza in rue Monsieur, nella casa dei Gesuiti. Abbiamo avuto delle lunghe discussioni; ero affascinato dalla sua teoria dell’ evoluzione e del punto Omega, mi sembrava addirittura che fosse in contraddizione con la teologia cattolica. Tuttavia era un uomo che mi affascinava, mi interessava molto. E sono stato felice, in seguito, di leggere i suoi libri. Solo allora ho capito fino a che punto il suo pensiero fosse cristiano, e quanto fosse originale e coraggioso» (9). Nel diario di Eliade, in data 23 gennaio 1950, troviamo: «Ho pranzato nella sede della rivista ‘Etudes’, al 15 di rue Monsieur, per fare la conoscenza di padre Teilhard de Chardin. Quindi, nella sua stanza, due ore di conversazione. C’ erano anche i padri Fessard, Daniélou e Bernardt… Gli ho detto, sorridendo, che la sua visione cristocosmica è più audace delle più fantastiche creazioni mahayaniche (milioni di universi, milioni di reincarnazioni, milioni di bodhisattva, ecc), e lui mi ha dato ragione. È vero – ha detto – la ‘Scienza’ e il Logos cristiani superano per profondità e per audacia tutto quanto è stato pensato ed immaginato fino ad oggi. Prima che me ne andassi, mi ha offerto diversi testi dattiloscritti, alcuni in più esemplari, in modo che io potessi distribuirli agli amici. Testi – ha precisato – che ancora non possono essere pubblicati».
     L’ interesse di Eliade per Teilhard ha una sua precisa ragione, che traspare dai suoi scritti. Nel suo diario, in data 6 marzo 1965, si legge: «Il successo considerevole di Teilhard de Chardin è dovuto notoriamente al fatto seguente: egli ha ‘risantificato’ il Mondo, la Vita, la Materia». Nel corso di una conferenza tenuta all’ università di Chicago nell’ ottobre 1965, Eliade si sofferma a lungo su Teilhard, in particolare sul significato culturale del successo degli scritti del padre gesuita, pubblicati postumi. I lettori di Teilhard, spiega Eliade riferendosi soprattutto ai non credenti, «sono stanchi di esistenzialismo e di marxismo, stanchi del continuo parlare di storia, di impegno e così via. Essi si interessano di Natura e di Vita… Ma non si può semplicemente parlare del ‘vitalismo’ di Teilhard. Teilhard infatti è un uomo religioso, per lui la vita è sacra; di più: per lui la materia cosmica come tale è suscettibile di venire santificata. Non solo egli ha gettato un ponte tra scienza e cristianesimo, non solo ha proposto una visione ottimistica dell’ evoluzione cosmica ed umana dell’ universo, ma ha anche rivelato la suprema sacralità della Natura e della Vita» (10).
     In evidente sintonia con il gesuita, Eliade si mostra desideroso di apprendere il suo pensiero. Legge anche un articolo di Teilhard sulla rivista Psyché, e segna nel suo diario, in data 22 maggio 1963, di aver scorso con avidità gli scritti allora inediti presenti nel libro di Claude Cuénot, Pierre Teilhard de Chardin – Les grandes étapes de son évolution. Sempre nel suo diario riporta anche di aver cenato da una certa Marie-Louise con altri amici e che l’ argomento principale della conversazione è stato Teilhard, ed un’ altra volta accenna ad un incontro in cui «ciò che mi ha più impressionato nella conversazione con Teilhard è stata la sua risposta a una mia domanda: che cosa significasse per lui l’ immortalità dell’ anima» (11). L’ interesse del rumeno per Teilhard non è, evidentemente, solo professionale. Gli studi per Eliade sono infatti, come per il gesuita, soprattutto un cammino interiore personale di un credente perché, spiega soprattutto nel suo libro La nostalgia delle origini, la Storia delle Religioni è una disciplina altamente spirituale che trasforma interiormente. «Nel corso di questa lunga ricerca – trenta e passa anni trascorsi tra gli Dei e le Dee esotici – avevo uno scopo: desideravo giungere ad un ‘centro’» (12).

Il Cristo integrale di Eliade

     «Tutte le ierofanie (= manifestazioni del sacro) altro non sono che prefigurazioni del miracolo dell’ incarnazione»; «La venuta del Cristo segna l’ ultima e più alta manifestazione della sacralità del mondo»; «L’ incarnazione rappresenta l’ ultima e più perfetta ierofania: Dio si è completamente incarnato in Gesù Cristo» (13).
     Non possono sussistere dubbi, come indicano queste espressioni, sull’ identità di quel ‘centro’ che il massimo storico delle religioni vuole raggiungere. Le innumerevoli figure divine alle quali dedica tutta la sua vita, hanno conferito un significato alle giornate, agli sforzi, alle attese, alle gioie ed alle sofferenze di miliardi di esseri umani, e la venuta di Gesù – come spiega nella sua Storia delle credenze e delle idee religiose – le conferma in maniera definitiva: «La kenosis di Gesù Cristo non solo costituisce il coronamento di tutte le ierofanie avvenute sin dal principio dei tempi, ma anche le giustifica, ne dimostra cioè la validità». Con l’ avvento di Gesù si chiude un’ èra e se ne apre un’ altra, «la concezione del tempo mitico e dell’ eterno ritorno è definitivamente superata» (14).
     Tuttavia, «non esiste il fatto religioso ‘puro’, fuori dalla storia, fuori dal tempo. Quando il Figlio di Dio si incarnò e divenne Cristo, non potè fare a meno di comportarsi come un ebreo del suo tempo, e non come uno yogi, un taoista o uno sciamano. Il suo messaggio religioso, per quanto universale, era condizionato dalla storia passata e contemporanea del popolo ebraico. Se il Figlio di Dio fosse nato in India, il suo messaggio orale avrebbe dovuto conformarsi alla struttura delle lingue indiane, ed alla tradizione storica e preistorica di quell’ insieme di popoli» (15). Ogni ierofania è culturalmente condizionata: «Il sacro si manifesta. E, di conseguenza, si limita e cessa così di essere assoluto» (16). È in questa ottica che Eliade si mobilita, concentrando tutti i suoi sforzi sul recupero di tutte le valorizzazioni religiose avvenute durante l’ intera storia umana, che né Gesù né il Cristianesimo, per i limiti sopra citati, potevano fare proprie. Perciò per il rumeno la più grande scoperta dei tempi moderni non è, come per Teilhard, la legge di complessità-coscienza (la sempre crescente complessità degli organismi genera stati di coscienza/amore sempre più vicini ai parametri necessari per il capovolgimento finale, in cui Cristo diviene tutto in tutti), ma la scoperta dell’ uomo non europeo e del suo universo spirituale. E più in particolare l’ uomo arcaico: «Il mio obiettivo è di rendere intelligibile al mondo moderno – occidentale ed orientale – quelle creazioni religiose poco note o mal commentate come primo passo verso un risveglio spirituale» (17).

La convergenza di due esperienze

A Teilhard non interessa individuare elementi comuni tra le varie tradizioni per sentirsi uniti in Dio, iniziativa priva di forza di attivazione spirituale (18), incapace di aumentare la temperatura spirituale del pianeta verso l’ Incandescenza finale, ma il superamento di tutto ciò che la Scienza ha dichiarato non più valido e la ricerca di tutte le energie spirituali esistenti nel Creato, perché esse sono parte del corpo di un Cristo coestensivo all’ enormità di un universo in evoluzione: «Il successo spirituale dell’ universo è collegato alla liberazione di tutte le sue possibili energie»; «L’ Incarnazione è una restaurazione di tutte le Potenze dell’ Universo» (19). Eliade accoglie con entusiasmo questa prospettiva del gesuita, perché permette un recupero qualitativo di tutte le altre esperienze religiose. Immerso nei suoi studi di storico delle religioni, Eliade si è trovato tutta la vita di fronte a documenti che trasmettevano l’ esperienza di uomini per i quali gli elementi del Mondo erano allo stesso tempo se stessi e un’ Altra Cosa. Lo studio dell’ uomo arcaico per Eliade riporta l’ uomo moderno, incapace di captare la melodia spirituale proveniente dalla Materia, all’ unione con Dio mediante l’ armonia con il Cosmo, l’ Io-Tu Uomo-Dio direttamente vissuto nella presa di contatto con la misteriosa realtà della Vita. Per questo motivo un universo che si attiva convergendo verso un Polo d’ Amore è prospettiva che si sposa mirabilmente con le aspettative della Storia delle Religioni. «Teilhard ha aperto all’ uomo occidentale una prospettiva insperata», nota il rumeno, «una prospettiva in cui la natura assume valori religiosi pur mantenendo la sua realtà completamente ‘oggettiva’» (20).
     Eliade mostra di condividere l’ idea teilhardiana di «un processo di selezione attraverso dei salti qualitativi in avanti, un opus magnum nel quale è implicato un Cristo cosmico», aderisce alla sua visione «rassicurante» ed urla «che gioia!» nel leggere che Teilhard vuole scovare Cristo nel cuore delle realtà più naturaliste e ‘pagane’ (21). Per il rumeno l’ evoluzione dell’ universo, come per Teilhard, è libera ma direzionata verso una crescita spirituale: «Ritengo che tutte le scoperte tecniche abbiano creato delle occasioni affinchè lo spirito umano cogliesse determinate strutture dell’ essere che prima era difficile cogliere» (22).
     Scaturita da interessi differenti, l’ esperienza di Eliade va a sposarsi con quella del gesuita, e il rumeno non ne fa mistero: «Se qualcuno studierà un giorno, con intelligenza, la mia teoria sulla ierofania e sulla ierofanizzazione progressiva del mondo, della vita e della storia, potrà paragonarmi a Teilhard de Chardin» (23). Nel suo pensiero è presente lo stesso senso dell’ evoluzione che lo porta a concepire la storia del cammino religioso dell’ umanità come una penetrazione in zone sempre più profonde di un Cristo che si completa nel suo divenire, però Eliade stesso sottolinea che per coglierla non è sufficiente leggere un suo libro, bisogna ‘studiare con intelligenza’ e non un solo testo: «Se si vuol giudicare quel che ho scritto bisogna prendere in considerazione i miei libri nella loro totalità. Se c’ è in essi qualche valore, qualche significato, essi risulteranno dalla totalità» (24).

Il futuro

Nonostante parli di «inanità dei concetti, dei simboli e dei rituali delle Chiese cristiane» (25), Eliade non preclude un certo ruolo alla Chiesa nell’ avvenire della religione: «Per quel che riguarda la Chiesa cattolica, si vede benissimo che non si tratta solo di una crisi dell’ autorità, bensì di crisi delle antiche strutture, liturgiche e teologiche. Non credo si tratti della fine della Chiesa, ma forse quella di una certa Chiesa cristiana. Dopo prove e controversie, certe cose, più interessanti, più significative, potranno venire alla luce» (26). Qui egli si riallaccia decisamente a Teilhard: «Mi ricordo ciò che ebbe a dirmi circa la necessità di un rinnovamento dei dogmi: la Chiesa – diceva – è come un crostaceo; deve disfarsi, periodicamente, del suo carapace per crescere» (27). È più severo invece con le tesi materialiste: «Più l’ esistenza diventerà precaria per colpa della storia, e più le posizioni dello storicismo perderanno credito» (28), però assegna un ruolo preminente nel futuro della religione ai laici, o meglio all’ atteggiamento laico, che contiene più elementi della vera esperienza del sacro rispetto a sistemi religiosi troppo razionalizzati ed ormai privi di linfa vitale, ed alla «capacità di fondare un nuovo tipo di esperienza religiosa fondato sulla presa di coscienza del carattere radicalmente profano del mondo e dell’ esistenza umana» (29). Il rumeno riconosce nel Cristianesimo, nelle pagine conclusive del suo Il mito dell’ eterno ritorno, la nota più moderna di tutta la storia delle religioni, «la religione dell’ uomo moderno, uscito dall’ orizzonte del tempo ciclico, integrato alla storia e al progresso, di chi ha scoperto la libertà personale», però è perentorio sulle sue possibilità di attivazione spirituale: «Il Cristianesimo in generale, e la ‘filosofia cristiana’ in particolare, sono suscettibili di rinnovamento (solo) se sviluppano il Cristianesimo cosmico» (30).
     Circa il domani comunque Eliade non si sbilancia, perché «la libertà dello spirito è tale che non si possono fare anticipazioni circa il futuro della religione». Mostra però di condividere con Teilhard altri punti oltre a quelli sopra ricordati. «Conosceremo altre forme religiose che saranno condizionate dal nuovo linguaggio e dalla società del futuro. Fino ad ora l’ uomo non è stato ancora arricchito spiritualmente dalle ultime scoperte teniche come lo fu dalle scoperte della metallurgia o dell’ alchimia» (31). Ed anche qui Eliade si richiama al gesuita, alla «sua grande fiducia nei progressi della scienza; per Teilhard de Chardin i progressi scientifici avevano anche una funzione religiosa» (32).
     Per il rumeno il punto che non cambierà mai nella esperienza religiosa è «l’ incontro con ciò che ci salva dando un senso alla nostra esistenza», ma per il resto nell’ avvenire si volterà completamente pagina: «Di una cosa sono certo: le forme future dell’ esperienza religiosa saranno del tutto diverse da quelle che conosciamo nel Cristianesimo, nel Giudaismo, nell’ Islam, che sono fossilizzate, in disuso, svuotate di senso» (33). Questa novità ci accomunerà in una mutata coscienza collettiva: «Oggi, per la prima volta, la storia sta diventando realmente universale, e così la cultura è sulla via di divenire planetaria. La storia dell’ uomo dai tempi paleolitici fino ai tempi presenti è destinata ad ooccupare il centro dell’ educazione umanistica, quali che siano le interpretazioni locali o nazionali. La Storia delle Religioni può avere un ruolo essenziale in questa funzione di ‘planétisation’ della cultura e può contribuire alla elaborazione di un tipo di cultura universale. Tutto questo non avverrà certamente entro un breve lasso di tempo» (34).
     Teilhard, che ritiene l’ umanità ormai pronta per più vaste e ‘centrate’ realizzazioni, predice una nuova religione fondata sulla consapevolezza comune di stare costruendo un unico Corpo, e in questo cammino conferisce al Cristianesimo un primato, paragonandolo ad un fiume che apre una breccia in cui si tuffano poi tutti gli altri (35). Il rumeno afferma parimenti, nella prima parte del suo La nostalgia delle origini, che la coscienza occidentale riconosce ormai solo una storia, la storia universale, e che la posizione etnocentrica è superata perché considerata provinciale. Aggiunge inoltre che i popoli asiatici sono di recente entrati anch’ essi nella storia, che i cosiddetti primitivi si apprestano a farlo, e che di conseguenza si stanno profilando all’ orizzonte creazioni spirituali più grandiose, di livello planetario.

Conclusioni

Dunque, come abbiamo visto, la Weltanschauung dei due pensatori è straordinariamente simile. In entrambi ritroviamo:

- evoluzione direzionata, guidata da una Energia spirituale;
- crollo dei microcosmi religiosi tradizionali;
- Cristianesimo rinnovato come locomotore trainante del treno spirituale dell’ avvenire;
- funzione religiosa dei progressi della Scienza;
- cambiamento dello stato di coscienza;
- co-riflessione per visione comune;
- novità assoluta alla base della religione del futuro.

     Certo i due si occupano di scienze diverse, e propongono strade differenti: «Teilhard è giunto a questa teoria attraverso la scoperta della Cosmogenesi, io invece attraverso la decifrazione delle religioni cosmiche» (36). Ma con l’ identica fiduciosa speranza nell’ avvenire dell’ uomo: «(Far) comprendere le dimensioni ignorate, o disprezzate, della storia dello spirito, non significa soltanto arricchire la scienza, ma contribuire alla generazione ed allo sviluppo della creatività dello spirito, nel nostro mondo e nella nostra epoca» (37).
     Sia Teilhard (che ha utilizzato anche i risultati della disciplina nota come Storia delle Religioni), sia Eliade (storico delle religioni che identifica la sua esperienza con quella di Teilhard), hanno sottolineato che le religioni non sono apparse simultaneamente separate su un piano orizzontale. Esiste una unica storia delle idee e delle credenze religiose, con un suo dinamismo evolutivo che si è ormai palesato convergente, per integrazione qualitativa reciproca tra le varie prospettive, verso un unico Centro. Una scoperta che è, per chi ne fa esperienza, soprattutto un Incontro: «In un Universo che mi si rivelava in stato di convergenza, Tu avevi preso, per diritto di Risurrezione, la posizione chiave del Centro totale in cui tutto si raccoglie» (38).

Note

(1) Su tutte queste teorie e sull’ interesse e le ripercussioni suscitati all’ epoca da questo dibattito si vedano per esempio: E. EVANS PRITCHARD, Teorie sulla religione primitiva, Sansoni, Firenze 1971; M. ELIADE, La nostalgia delle origini, Morcelliana, Brescia 1972, pp. 25/69; U. BIANCHI, Storia dell’ etnologia, Edizioni Abete, Roma 1964.
(2) P. TEILHARD DE CHARDIN, Nota sulle modalità dell’ azione divina nell’ universo (1920), in: La mia fede, Queriniana, Brescia 1993, p. 33.
(3) P. TEILHARD DE CHARDIN, Il fenomeno cristiano, in: La mia fede, cit., p. 194. In realtà gli antropomorfismi sono un fenomeno tardivo in Storia delle Religioni ma Teilhard, che usa un vocabolo improprio perché non è uno storico delle religioni, ha comunque compreso il nocciolo della questione: il dialogo con l’ Aldilà ha preso il via sempre e soltanto dalla vita vissuta.
(4) In un suo scritto del 1932 (La via dell’ Ovest verso una nuova mistica) cita infatti la teoria della mente primitiva come pre-logica, esposta da Lévy-Bruhl soprattutto in La mentalité primitive (1922). L’ ipotesi di una mentalità pre-logica incontrò un certo consenso allora, ma poi cadde e fu ritrattata dallo stesso Lévy-Bruhl.
(5) P. TEILHARD DE CHARDIN, Il posto dell’ uomo nella natura, Il Saggiatore, Milano 1970, p. 144.
(6) P. TEILHARD DE CHARDIN, Note pour servir à l’ évangélisation des temps nouveaux, in: Ecrits du temps de la guerre, éd. du Seuil, Parigi 1965, p. 410. La conferma della familiarità di Teilhard con le mitologie dei vari popoli ci arriva anche da un suo scritto del 1933, Cristologia ed Evoluzione (vedi : La mia fede, cit., p. 87 nota 5).
(7) P. TEILHARD DE CHARDIN, Il Cristico, in: Il Cuore della Materia, Queriniana, Brescia 1993, pp. 75/76.
(8) P. TEILHARD DE CHARDIN, Panteismo e Cristianesimo, in: La mia fede, cit. p. 76.
(9) M. ELIADE, La prova del labirinto, Jaca Book, Milano 1980, p. 87.
(10) M. ELIADE, Occultismo, stregoneria e mode culturali, Sansoni, Firenze 1982, pp. 14/15.
(11) M. ELIADE, Giornale, Boringhieri, Torino 1976, p. 251.
(12) Ibidem, pp. 230/231.
(13) M. ELIADE, Trattato di Storia delle Religioni, Boringhieri, Torino 1976, p. 36; Miti, sogni e misteri, Rusconi, Milano 1976, p. 177; Storia delle credenze e delle idee religiose, Sansoni, Firenze 1982, vol. 2, p. 406.
(14) M. ELIADE, Miti, sogni e misteri, cit., p. 175.
(15) M. ELIADE, Immagini e simboli, Jaca Book, Milano 1981, p. 33.
(16) M. ELIADE, Miti, sogni e misteri, cit., p. 147.
(17) M. ELIADE, La prova del labirinto, cit., pp. 135 e 60.
(18) Vedi lettera di Teilhard de Chardin a Jeanne Mortier citata in: E. BONNETTE, L’ ecumenismo nel pensiero di Pierre Teilhard de Chardin, in: Il futuro dell’ uomo, n. 2 / 1997, p. 105.
(19) P. TEILHARD DE CHARDIN, Lettere di viaggio, Feltrinelli, Milano 1962, p. 104; La vita cosmica, Il Saggiatore, Milano 1970, p. 86.
(20) M. ELIADE, Occultismo, stregoneria e mode culturali, cit., p. 16.
(21) M. ELIADE, Giornale, cit., pp. 320/321.
(22) M. ELIADE, La prova del labirinto, cit., p. 123.
(23) M. ELIADE, Giornale, cit., p. 321.
(24) M. ELIADE, La prova del labirinto, cit., p. 170.
(25) M. ELIADE, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino 1984, p. 9.
(26) M. ELIADE, La prova del labirinto, cit., p. 106. (27) M. ELIADE, Giornale, cit., p. 250.
(28) M. ELIADE, Il mito dell’ eterno ritorno, Borla, Roma 1982, p. 193.
(29) M. ELIADE, Il sacro e il profano, cit., p. 9.
(30) M. ELIADE, Giornale, cit., p. 377.
(31) M. ELIADE, La prova del labirinto, cit., pp. 107 e 104.
(32) M. ELIADE, Giornale, cit., p. 251.
(33) M. ELIADE, La prova del labirinto, cit., pp. 147 e 109.
(34) M. ELIADE, La nostalgia delle origini, cit. p. 84.
(35) P. TEILHARD DE CHARDIN, L’ apporto spirituale dell’ Estremo Oriente. Alcune riflessioni personali, in: Le direzioni del futuro, SEI, Torino 1996, p. 180.
(36) M. ELIADE, Giornale, cit., p. 321.
(37) M. ELIADE, La prova del labirinto, cit., pp. 146/147.
(38) P. TEILHARD DE CHARDIN, Il Cuore della Materia, cit., p. 46.





L'antroposofia

(fonte EURISPES)


La Società Antroposofica

     Il fondatore Rudolf Steiner (1861-1925), nato nell'Impero austriaco a Kraljevec (oggi in Jugoslavia) da genitori cattolici, riceve un'educazione tecnico-scientifica e, a soli ventidue anni, si vede affidato il prestigioso incarico di pubblicare gli scritti scientifici di Goethe.
     Nel frattempo ha incontrato la Teosofia, e sarebbe stato iniziato - secondo quanto racconterà più tardi - da un Maestro che chiama semplicemente "M". Dopo aver trascorso alcuni anni a Vienna e a Weimar, coltivando i suoi interessi per Goethe e per Nietzsche, Steiner si trasferisce a Berlino e dal 1902 può essere considerato l'effettivo leader della Teosofia in Germania.
     A Berlino incontra Marie von Sieves, che diventerà la sua seconda moglie e la compagna inseparabile della sua avventura spirituale. Dal 1909 gli scritti di Steiner sul ruolo centrale di Gesù Cristo cominciano a metterlo in disaccordo con Annie Besant (Società teosofica inglese).
     La rottura definitiva con la Società teosofica si ha con il caso Krishnamurti: Steiner si rifiuta di credere alla missione di nuovo Cristo del giovane indiano e dichiara incompatibile con l'appartenenza alla Società Teosofica in Germania l'adesione all'Ordine della Stella dell'Est, fondato per preparare l'avvento di Krishnamurti come Maestro Mondiale. Come risultato, Annie Besant espelle Steiner e i suoi seguaci dalla Società Teosofica. In Germania, cinquantacinque delle sessantacinque logge della Società Teosofica rimangono con Steiner che rende indipendente dalla Teosofia la sua Società Antroposofica (originariamene concepita come movimento all'interno della Teosofia).
     La sede centrale dell'Antroposofia viene trasferita a Dornach, presso Basilea, dove a partire dal 1913, su disegni di Steiner, viene costruito il Goetheanum, un edificio dal complesso significato simbolico. Nel 1922 il primo Goetheanum viene distrutto da un incendio, ma Steiner inizia subito la costruzione di un secondo (lievemente diverso, completato negli anni Cinquanta).
     Dopo la morte di Steiner nel 1925, il movimento ha subìto alcuni piccoli scismi (particolarmente in Inghilterra e in Olanda negli anni 1933-1935), e ha patito le conseguenze di una lunga disputa a proposito dei diritti d'autore sulle opere del fondatore.
     Tuttavia, le idee centrali di Steiner, soprattutto in materia di educazione e di arte, si sono diffuse in molti paesi del mondo (Italia compresa) e la Società, che conta circa venticinquemila seguaci, ha una influenza maggiore di quanto non si ricavi dal numero dei suoi membri, attraverso istituzioni parallele come le scuole Waldorf e le comunità Camphill per handicappati.

Dottrine

     La dottrina di Rudolf Steiner è esposta in modo non sistematico (e, in parte, rimane segreta, affidata alla Scuola della Scienza Spirituale, che corrisponde alla "Sezione Esoterica" nella Teosofia). E' difficile, riassumendola brevemente, rendere giustizia alla complessità dell'edificio eretto da Steiner, che rimane in ogni caso influenzato dalla Teosofia sia nella visione dell'uomo che in quella del cosmo, ma con differenze importanti.
     L'uomo per Steiner si compone di corpo, anima e spirito, ma ciascuna di queste tre parti comporta tre ulteriori suddivisioni. Lo schema può tuttavia essere semplificato distinguendo una natura fisica, una eterica, una astrale e infine l'Io, che costituisce la caratteristica propria dell'uomo e degli esseri superiori.
     Alla morte l'involucro fisico viene deposto, mentre per qualche giorno l'uomo conserva la natura eterica, attraverso cui vede in un quadro riassuntivo tutta la sua vita passata. Deposto anche il corpo eterico, l'uomo - ancora con la natura astrale - trascorre un periodo di purificazione nel mondo animico, composto di sette piani. Infine, anche il corpo astrale viene abbandonato e rimane l'Io come "seme" che cresce nel mondo spirituale (diviso in sette regioni) finché, dopo un periodo che va in genere da cinquecento a mille anni dalla precedente vita terrena, riceve un nuovo corpo astrale ed eterico, sceglie i genitori, vede la sua vita futura in un rapido quadro d'insieme e infine si reincarna in un nuovo corpo fisico (in genere di sesso opposto rispetto all'esistenza precedente).
     Giacché l'uomo è un microcosmo, l'antropologia riflette la cosmologia, in cui si ritrova il familiare schema teosofico della discesa o "condensazione" dello spirito verso la materia, con successiva risalita o "spiritualizzazione". Rimane, in comune con la Teosofia, una certa diffidenza nei confronti della materia (agli spiriti negativi, Arimane e Lucifero - pure misteriosamente - è attribuita la responsabilità per l'eccessiva condensazione materiale); però, a differenza della Teosofia, più orientaleggiante, viene negato l'"individualismo" ma non l'"individualità" alla quale, purché "spirituale", viene riconosciuto un certo valore.
     La "discesa" dallo spirito alla materia condensata avviene a partire dall'Essere Puro, le cui prime manifestazioni vengono descritte facendo riferimento al concetto di Trinità. Il processo discendente di condensazione avviene attraverso gli stadi chiamati - dai nomi dei pianeti - Saturno, Sole, Luna e Terra; il processo ascendente passa per gli stadi di Giove, Venere e Vulcano. La Terra - secondo uno schema che ricorda la Dottrina segreta della Blavatsky, ma con importanti modifiche - passa a sua volta attraverso sette epoche.
     E' nella terza (Lemuria) e nella quarta (Atlantide) di queste epoche che l'uomo acquista la sua individualità insieme con l'indipendenza e la libertà, che derivano dalle potenze maligne (ma a loro modo, nel grande piano cosmico, necessarie) Lucifero e Arimane. A causa dell'azione di Lucifero e di Arimane, è solo nella quinta epoca, dopo un grande cataclisma (e non nella quarta), che si verifica il punto culminante dell'evoluzione cosmica con la discesa del Cristo, che segna la fine della discesa verso la materia e l'inizio della nuova ascensione verso lo spirito.
     Secondo Steiner vi erano, all'origine, due Gesù: uno - di cui parla il Vangelo di San Matteo - pieno di saggezza e chiamato il Gesù "Salomone", l'altro - di cui parla il Vangelo di San Luca - pieno di amore e di compassione e chiamato il Gesù di "Nathan". In questo modo si spiegherebbero alcune presunte contraddizioni tra i due evangelisti Matteo e Luca, che parlerebbero in realtà di due persone diverse.
     Nel momento della disputa con i dottori del Tempio, i due Gesù si fondono misteriosamente in uno, e al battesimo nel Giordano quest'unico Gesù è sufficientemente evoluto per ricevere in sé il Cristo.
     Alla crocefissione il Cristo lascia il corpo di Gesù e diventa lo spirito della Terra e del corpo fisico ed eterico degli uomini; come "luce" appare pure, risorto, ai discepoli.
     Da questo momento Arimane è confinato all'Inferno e gli uomini - almeno i più evoluti fra loro (gli altri dovranno attendere, ma potranno essere aiutati dai primi) - possono avanzare verso la fine dell'epoca della Terra e verso i successivi stadi di Giove (dove l'élite degli uomini si libera dal corpo fisico), Venere e infine Vulcano, che corrisponde a una vera e propria - benché misteriosa - "deificazione".
     Dopo la venuta del Cristo, l'Antroposofia ha un ruolo particolarmente importante nel preparare gli uomini più evoluti a rendersi conto dell'intero processo cosmico e quindi a diventare protagonisti attivi dell'evoluzione.
     Il cammino dell'Antroposofia è meditativo e passa per tre stadi:
-l'immaginazione (attraverso cui si prende coscienza della propria soggettività)
 -l'ispirazione (con cui si prende coscienza degli avvenimenti della Terra e dei pianeti) e finalmente
-l'intuizione (con cui si entra in contatto, pure tra molte difficoltà, con le Gerarchie Spirituali).

     Questo metodo promette una nuova scienza della mente, del corpo e delle forme, ispirata anche da Goethe, che consente di acquisire molte conoscenze di carattere occulto e spirituale, ma non manca di applicazioni pratiche, in particolare in campo agricolo (agricoltura biodinamica.).
     Un ruolo molto importante nel cammino dell'Antroposofia occupano le arti, in particolare l'"euritmia" (una forma particolare di psicomovimenti), la retorica o declamazione, la musica e l'architettura, che trova il suo vertice nel Goetheanum di Dornach (Basilea-CH).
     Gli insegnamenti di Steiner vengono anche applicati all'educazione attraverso le scuole e agli asili Waldorf (così chiamati dal nome di un benefattore che ne permise le prime realizzazioni), e le comunità Camphill per adulti e giovani handicappati. Infine, negli anni successivi alla prima guerra mondiale, Steiner sviluppò pure alcune idee politiche, centrate sull'importanza della cultura per le nazioni e sulla sostituzione della moneta basata sull'oro con una moneta basata sui beni agricoli. Queste idee ricevono oggi una nuova attenzione da parte dell'Antroposofia.

Organizzazione

     Al vertice dell'Antroposofia si trova la Scuola della Scienza Spirituale ("Prima Classe"), che svolge un ruolo esoterico e i cui insegnamenti sono segreti. La Società Antroposofica, secondo le sue costituzioni, è indipendente dalla Scuola della Scienza Spirituale, ma di fatto i dirigenti della seconda hanno sempre svolto un ruolo preminente nella prima. Alla Società Generale, che ha sede presso il Goetheanum, fanno capo le varie società nazionali, rette con metodo democratico, di cui le più importanti hanno sede in Germania, Svizzera, Olanda, Inghilterra e Stati Uniti.
     Lo sviluppo in Italia è discreto. Come accennato, le scuole Waldorf e le comunità Camphill - benché normalmente guidate da antroposofi - sono apprezzate e frequentate anche da persone che non aderiscono ai princìpi dell'Antroposofia. Sviluppi simili hanno le istituzioni dedite all'agricoltura biodinamica.
     Un discorso a parte merita la Comunità dei Cristiani, fondata nel 1922 dal pastore luterano Friedrich Rittelmeyer (1872-1938) in collaborazione con Steiner. La Comunità dei Cristiani offre un rituale centrato sull'"Atto di Consacrazione dell'Uomo", che ricorda nelle forme la messa cattolica, ma il cui contenuto è completamente antroposofico, e su altri sei sacramenti (battesimo, confermazione, matrimonio, "consultazione sacramentale" - che ricorda la confessione -, unzione e ordinazione).
     La Comunità dei Cristiani comprende una gerarchia sacerdotale (sembra vi siano oggi al mondo circa trecentocinquanta sacerdoti, uomini e donne, guidati da un "Erzoberlenker") ma - a differenza di quanto è avvenuto nelle "piccole chiese" - non si è andati alla ricerca di una linea di successione apostolica, ritenendosi che il Cristo stesso abbia, nel 1922, dato inizio alla Comunità.
     Vi è una qualche analogia tra il rapporto che intercorre tra la Comunità dei Cristiani e l'Antroposofia, e quello tra la Chiesa Cattolica Liberale e la Teosofia. Tuttavia, Comunità dei Cristiani e Antroposofia sono apparse, negli ultimi anni, più distinte di quanto non siano la Società Teosofica e la Chiesa Cattolica Liberale. Non solo è una parte soltanto dei membri della Società Antroposofica che frequenta la Comunità dei Cristiani, ma vi sono pure fedeli della Comunità dei Cristiani che non sono membri della Società Antroposofica. Sembra tuttavia che una parte importante del clero della Comunità dei Cristiani appartenga alla Scuola della Scienza Spirituale, assicurando così un legame tra le due istituzioni.
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Gershom Scholem:  "La Cabala"
Edizioni Mediterranee anno 1982 pp. 128-132

     La questione dell’origine e della natura del male fu una delle principali forze motrici della speculazione cabalistica. Nell’importanza ad essa attribuita sta una delle differenze fondamentali tra la dottrina cabalistica e la filosofia giudaica, che non diede un notevole contributo di pensiero originale al problema del male. Le soluzioni proposte dai cabalisti erano diverse. Il Ma'arekhet ha-Elohut rivela l'influenza della posizione neoplatonica convenzionale, per la quale il male non ha realtà oggettiva ed è soltanto relativo. L'uomo è incapace di ricevere tutto l'influsso delle Sephiroth, ed è questa inadeguatezza che sta all'origine del male, il quale ha perciò una realtà esclusivamente negativa. Il fattore determinante è lo straniamento delle cose create dalla loro fonte d'emanazione, una separazione che porta a manifestazioni di ciò che a noi appare come la forza del male. Ma quest'ultimo non ha una realtà metafisica, ed è dubbio che l'autore del Ma'arekhet ha-Elohut e i suoi discepoli credessero all'esistenza di un regno separato del male al di fuori della struttura delle Sephiroth. D'altra parte, troviamo già nel Sepher ha-Bahir una definizione della Sephirah Guebourâ come "la mano sinistra del Santissimo, che sia benedetto", e come "una qualità il cui nome è male", che ha molte ramificazioni nelle forze del giudizio, i poteri coercitivi e limitanti nell'universo. Già al tempo di Isaac il Cieco questo portò alla conclusione che doveva esservi necessariamente una radice positiva del male e della morte, che era controbilanciata nell'unità della Divinità dalla radice del bene e della vita. Durante il processo di differenziazione di queste forze al di sotto delle Sephiroth, tuttavia, il male diveniva sostanziato come una manifestazione separata. Si sviluppò quindi la teoria che vedeva la fonte del male nella crescita sovrabbondante del potere del giudizio, resa possibile dal sostanziamento e dalla separazione della qualità del giudizio dalla sua abituale unione con la qualità dell'amore e della bontà. Il puro giudizio, non temperato da influssi mitiganti, produceva da se stesso il sitra ahra (l'altra parte), come un recipiente che viene riempito fino a traboccare riversa al suolo il liquido superfluo. Questo sitra ahra, il regno delle emanazioni tenebrose e dei poteri demonici, quindi non è più una parte organica del Mondo della Santità e delle Sephiroth. Sebbene sia emersa da uno degli attributi di Dio, non può essere una parte essenziale di Lui. Questa concezione divenne dominante nella Cabala tramite gli scritti dei cabalisti di Gerona e lo Zohar.
     Secondo gli "gnostici" della Castiglia e, in una versione diversa, anche nello Zohar, esiste una gerarchia completa dell' "emanazione della sinistra" che è il potere dell'impurità attivo nella creazione. Tuttavia, questa realtà oggettiva perdura solo in quanto continua a ricevere nuova forza dalla Sephirah Guebourâ, che è nel santo ordine delle Sephiroth, e in particolare solo finché l'uomo la ravviva e la fortifica con le sue azioni peccaminose. Secondo lo Zohar, questo sitra ahra ha dieci Sephiroth (corone); e una concezione simile, benché con parecchie variazioni e l'aggiunta di certi elementi mitici, è espressa negli scritti di Isaac ha-Kohen e in Ammud ha-Semali dal suo allievo Moses di Burgos. Isaac ha-Kohen insegnava che i primi mondi, che furono distrutti, erano tre emanazioni tenebrose, e perirono a causa del male.
     Anche nello Zohar viene implicato che il male nell'universo ebbe origine dai resti dei mondi che furono distrutti. La forza del male è paragonata alla corteccia (Qliphat) dell'albero dell'emanazione, un simbolo che ebbe origine con Azriel in Gerona e che divenne molto comune dallo Zohar in poi. Alcuni cabalisti chiamano la totalità dell'emanazione della sinistra l'albero esterno" (ha-ilan ha-hizon). Un'altra associazione, che si trova nei cabalisti di Gerona e che li segue anche nello Zohar, è quella con "il mistero dell'Albero della Conoscenza". L'Albero della Vita e l'Albero della Conoscenza erano collegati in perfetta armonia fino a quando Adamo venne a separarli, dando così sostanza al male, il quale era contenuto nell'Albero della Conoscenza del Bene e del Male e ora si materializzò nell'istinto del male (yezer ha-ra). Quindi fu Adamo che attivò il male potenziale celato nell'Albero della Conoscenza, separando i due alberi e separando inoltre l'Albero della Conoscenza dal suo frutto, ora distaccato dalla sua fonte. Questo evento è chiamato metaforicamente "il taglio dei germogli" (kizzuz ha-neti'ot) ed è l'archetipo di tutti i grandi peccati menzionati nella Bibbia, il cui comune denominatore era l'introduzione della divisione nell'unità divina. L'essenza del peccato di Adamo fu che introdusse "la separazione sopra e sotto", in ciò che doveva essere unito, una separazione della quale ogni peccato è fondamentalmente una ripetizione, a parte i peccati che riguardano la magia e la stregoneria, che secondo i cabalisti uniscono ciò che dovrebbe restare separato. In effetti, questa concezione tende anch'essa a sottolineare il potere del giudizio contenuto nell'Albero della Conoscenza del potere dell'amore e della pietà contenuto nell'Albero della Vita. Quest'ultimo riversa il suo influsso abbondantemente, mentre il primo è una forza restrittiva, con la tendenza a diventare autonoma; e può farlo sia in conseguenza delle azioni dell'uomo, sia per un processo metafisico nei mondi superiori.
     Entrambe le concezioni appaiono nella letteratura cabalistica, senza che tra esse venga operata una chiara distinzione. Il male cosmico derivante dalla dialettica interna del processo d'emanazione qui non è differenziato dal male morale prodotto dalle azioni umane. Lo Zohar tenta di unire questi due regni, postulando che la disposizione alla corruzione morale, al male sotto forma di tentazione umana, deriva dal male cosmico che è il regno del sitra ahra (III:163a). La differenza fondamentale tra lo Zohar e gli scritti degli gnostici della Castiglia stava nel fatto che questi ultimi indulgevano in personificazioni esagerate delle forze di questo regno, facendo talvolta ricorso a precedenti credenze demonologiche, e chiamando le potenze dell'emanazione della sinistra con nomi propri, mentre l'autore dello Zohar si atteneva generalmente a categorie più impersonali, con l'eccezione delle figure di Samaël - l'equivalente cabalistico di Satana - e della sua compagna Lilith, alle quali assegnava un ruolo centrale nel regno del male. Un'altra deviazione da questa regola è la descrizione dettagliata dei "palazzi dell'impurità" e dei loro custodi nel suo commento a Esodo 38-40, che segue una descrizione parallela dei "palazzi della santità".
     Nel simbolismo dello Zohar concernente il sitra ahra, vi sono numerosi temi talora in conflitto. Le Qliphoth ("gusci" o "bucce" di male) sono talvolta intese in maniera neoplatonica come gli ultimi anelli della catena dell'emanazione dove tutto si trasforma in tenebra, come "la fine dei giorni" nella metafora dello Zohar. Altre volte, esse vengono definite semplicemente come intermediarie tra i mondi superiori e inferiori, e come tali non vengono necessariamente viste come malefiche. Anzi, ogni principio mediante è un "guscio" dalla prospettiva di ciò che sta al di sopra, ma è un "nocciolo" dal punto di vista di ciò che sta al di sotto (Zohar I:19b). In altre decisioni, il regno del male è delineato come il naturale prodotto di rifiuto di un processo organico, ed è paragonato al "sangue cattivo", a un ramo amaro dell'albero dell'emanazione, ad acque contaminate (II:167b), alla scoria che rimane dopo che è stato raffinato l'oro (hittukhei ha-zahau), o alla feccia del vino buono. Queste descrizioni del sitra ahra nello Zohar sono particolarmente ricche di immagini mitiche. L'identificazione del male con la materia fisica, sebbene ricorra talvolta nello Zohar e in altri libri cabalistici, non divenne mai una dottrina accettata. L'equivoco della filosofia medievale tra la concezione aristotelica e quella platonico-emanatista della materia è sentito altrettanto fortemente nella Cabala, sebbene solo di rado vi siano riferimenti al problema del modo in cui è emanata la materia. In generale, la questione della natura della materia non è centrale nella Cabala, dove l'interesse fondamentale era piuttosto la questione del modo in cui il Divino era riflesso nella materia. Discussioni occasionali della natura della materia da un punto di vista neoplatonico si possono già trovare nella letteratura del circolo del Sepher ha-lyyun. Cordovero, nel suo Rabbati Elimah, spiega l'emanazione della materia dallo spirito per mezzo di un trattamento dialettico del concetto di forma che era comune nella filosofia medievale.
     Secondo lo Zohar vi è una scintilla di santità persino nel regno dell'altra parte, sia proveniente da un'emanazione dell'ultima Sephirah, sia come risultato indiretto del peccato dell'uomo, perché come l'adempimento di un comandamento rafforza la parte della santità, un atto peccaminoso rivitalizza il sitra ahra. I regni del bene e del male sono in una certa misura commisti, e la missione dell'uomo è di separarli. In contrasto con questa concezione che riconosce l'esistenza metafisica del male, un punto di vista alternativo ha trovato la sua espressione fondamentale in Gikatilla, il quale definì il male come un'entità che non era nel suo posto legittimo: "ogni atto di Dio, quando è nel posto ad esso accordato alla creazione, è bene; ma quando si volge e lascia il suo posto, è male". Queste due concezioni - quella dello Zohar, che riconosce al male un'esistenza attuale come fuoco dell'ira e della giustizia di Dio, e quella di Gikatilla, che gli attribuisce solo un'esistenza potenziale che nulla può attuare, se non le azioni degli uomini - ricorrono in tutta la letteratura cabalistica senza che l'una riporti la vittoria sull'altra. Anche nelle diverse versioni della dottrina lurianica, le due concezioni sono perpetuamente in conflitto. (Sul problema del male nella Cabala lurianica si veda più sotto.) Uno sviluppo successivo e finale riguardo il problema del male si ebbe nella dottrina degli shabbatei, formulata particolarmente negli scritti di Nathan di Gaza. Secondo lui, vi erano fin dall'inizio due luci in Ayn Soph, "la luce che conteneva il pensiero" e "la luce che non conteneva il pensiero". La prima aveva in sé, fin dal principio, il pensiero di creare i mondi, mentre nella seconda tale pensiero non c'era, e tutta la sua essenza tendeva a rimanere occulta e a restare in se stessa senza emergere dal mistero di Ayn Soph. La prima luce era interamente attiva e la seconda interamente passiva e immersa nel profondo di se stessa. Quando il pensiero della creazione sorse nella prima luce, questa si contrasse per far spazio alla creazione, ma la luce senza pensiero, che non aveva parte nella creazione, rimase al suo posto. Poiché non aveva altra finalità che rimanere in se stessa, resistette passivamente alla struttura dell'emanazione che la luce contenente il pensiero aveva costruito nel vuoto creato dalla propria contrazione. La resistenza trasformò la luce senza pensiero nella suprema fonte del male nell'opera della creazione. L'idea di un dualismo tra materia e forma quale radice del bene e del male assume qui un aspetto originalissimo: la radice del male è un principio esistente nello stesso Ayn Soph, che si tiene distaccato dalla creazione e cerca di impedire che vengano attuate le forme della luce contenente il pensiero, non perché sia malefico per natura, ma solo perché il suo unico desiderio è che nulla debba esistere al di fuori di Ayn Soph. Rifiuta di ricevere in sé la luce che contiene il pensiero, e di conseguenza si sforza di frustrare e di distruggere tutto ciò che è costruito da quella luce. Quindi il male è il risultato di una dialettica tra due aspetti della luce dello stesso Ayn Soph. La sua attività nasce dalla sua opposizione al cambiamento. L'affinità di questa idea con la concezione neoplatonica della materia quale principio del male appare evidente. La lotta tra le due luci si rinnova ad ogni fase della creazione, e non avrà termine fino al tempo della redenzione finale, quando la luce che contiene il pensiero penetrerà completamente la luce senza pensiero e vi delineerà le sue forme sante. Il sitra ahra dello Zohar non è altro che la totalità della struttura che la luce senza pensiero è costretta a produrre quale risultato di questa lotta. Via via che il processo della creazione prosegue, la lotta diviene più acuta, perché la luce del pensiero, per sua stessa natura, vuole penetrare tutto lo spazio lasciato vuoto dalla sua contrazione e non lasciare nulla d'intoccato in quel regno primordiale e senza forma che Nathan chiama golem (hyle senza forma). La premessa che i principi del bene e del male esistono insieme nella mente suprema di Dio e che non vi è altra possibile soluzione logica al problema del male in un sistema monoteistico, fu condivisa da Leibnitz, il quale affrontò il problema in modo simile, circa quaranta anni dopo, nella sua Théodicée.
     Benché non vi sia il dubbio che in maggioranza i cabalisti ritenessero che il male avesse un'esistenza reale a vari livelli, anche se operava attraverso la negazione, essi erano divisi nelle diverse visioni del problema escatologico di come avrebbe avuto fine nel mondo e nell'uomo. I1 potere del male verrebbe totalmente distrutto nel tempo a venire? O forse sopravviverebbe, ma rimarrebbe privo di ogni possibilità d'influenzare il mondo redento, quando il bene e il male, che si erano mescolati, fossero finalmente separati di nuovo? O forse il male verrebbe ritrasformato in bene? La concezione che nel mondo futuro, quando ciò avverrà, tutte le cose ritorneranno al santo stato originale, ebbe sostenitori eminenti dai tempi dei cabalisti di Gerona in poi. Nachmanide parlava del "ritorno di tutte le cose alla loro vera essenza", un concetto forse tratto dall'escatologia cristiana e dalla dottrina dell'apokatasis (reintegrazione); ed egli intendeva con questo la riascesa di ogni essere creato alla sua fonte nell'emanazione, il che non avrebbe più lasciato spazio per la continuazione dell'esistenza del regno del male nella creazione o del potere dell'istinto malefico nell'uomo. Sembrerebbe, in effetti, che tale ritorno fosse connesso nella sua concezione al grande giubileo, secondo la dottrina delle shemittot. Questa posizione accettava la realtà del male nelle diverse shemittot, in ogni shemittah secondo la sua natura specifica.
     In generale, le argomentazioni cabalistiche circa il fato finale del male si limitavano al tempo della redenzione e al giorno del giudizio. L'opinione prevalente era che il potere del male sarebbe stato distrutto e sarebbe scomparso, poiché non vi sarebbe più stata alcuna giustificazione per la continuazione della sua esistenza. Tuttavia, altri sostenevano che il regno del male sarebbe sopravvissuto quale luogo di punizione eterna per i malvagi. Una qualche incertezza tra queste due convinzioni si trova tanto nello Zohar quanto nella Cabala lurianica. Nel complesso, lo Zohar sottolinea che il potere delle Qliphoth verrà "spezzato" nel tempo a venire, e in vari passi afferma chiaramente che il sitra ahra "sparirà dal mondo" e la luce della santità "risplenderà senza ostacoli". Gikatilla afferma, d'altra parte, che nel tempo a venire "Dio prenderà l'attributo di [punire] la sfortuna [cioè il potere del male] in un luogo dove non potrà essere maligna" (Sha'arei Orah, cap. 4). Quanti sostenevano la dottrina che il male sarebbe ridivenuto bene affermavano che lo stesso Samaël si sarebbe pentito e si sarebbe trasformato in un angelo di santità, il che avrebbe causato automaticamente la scomparsa del regno del sitra ahra. Questa concezione è espressa nel libro Kaf ha-Ketoret (1500) e particolarmente nell'Asarah Ma'amarot di Menahem Azariah Fano; ma è contrastata negli scritti di Vital, il quale assunse una posizione meno liberale. Una potente affermazione simbolica del futuro ritorno di Samaël alla santità, particolarmente diffusa a partire dal secolo XVII, fu la concezione che il suo nome sarebbe mutato, e la lettera Mem significante morte (mavet) sarebbe caduta per lasciare Sa'el, uno dei 72 Nomi sacri di Dio.

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Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra
Prefazione di Zarathustra, 5

Quando Zarathustra ebbe detto queste parole, guardò di nuovo il popolo e tacque. "Eccoli" disse al suo cuore "eccoli che ridono: non mi comprendono, io non sono una bocca adatta per questi orecchi.
Sarà prima necessario rompere loro gli orecchi, perché imparino ad ascoltare con gli occhi? Saranno necessari strepito di timpani e predicatori di penitenze? O credono solo a coloro che balbettano?
Essi hanno ancora qualcosa di cui sono orgogliosi. Ma come la chiamano? Cultura la chiamano ed è ciò che li distingue dai caprai.
Perciò ascoltano malvolentieri la parola 'disprezzo', indirizzata ad essi. E allora io parlerò al loro orgoglio.
Parlerò loro di quanto vi è di più spregevole: parlerò loro dell'ultimo uomo.
E così parlò Zarathustra al popolo:
"È tempo che l'uomo si ponga un fine. E tempo che l'uomo pianti il seme della sua più alta speranza.
Il suo terreno è ancora abbastanza ricco. Ma esso diverrà un giorno povero e insterilito e nessun grande albero vi potrà più crescere.
Ahimè! Si avvicina il tempo in cui l'uomo non scaglierà più la freccia del desiderio al di là di se stesso e la corda del suo arco non saprà più sibilare.
Io vi dico: si deve avere ancora del caos dentro di sé per poter generare una stella che danza. Io vi dico: avete ancora del caos dentro di voi.
Ahimè! Si avvicina il tempo in cui l'uomo non genererà più stelle. Ahimè! Si avvicina il tempo dell'uomo più disprezzabile, quello che non saprà più neanche disprezzarsi.
Ecco! Io vi mostro l'ultimo uomo.
Che cos'è amore? Che cos'è creazione? Che cos'è desiderio? Che cos'è stella? chiede l'ultimo uomo e strizza l'occhio.
La terra allora sarà divenuta piccola, e su di lei  saltellerà l'ultimo uomo, che renderà tutto piccolo. La sua razza è nestinguibile, come la pulce di terra; l'ultimo uomo vive più a lungo di tutti.
Noi abbiamo inventato la felicità, dicono gli ultimi uomini, e strizzano l'occhio.
Hanno abbandonato le regioni dove la vita era dura: perché si ha bisogno di calore. Si ama pure il vicino e ci si strofina contro di lui: perché si ha bisogno di calore.
Ammalarsi e diffidare è per essi peccato: e si procede circospetti. Stolto chi ancora incespica nelle pietre o negli uomini!
Un po' di veleno ogni tanto procura sogni piacevoli e molto veleno alla fine, per una morte gradevole.
Si lavora ancora perché il lavoro è un passatempo. Ma si fa in modo che che il passatempo non logori.
Non si diventa più poveri o ricchi: l'uno e l'altro è troppo molesto. Chi vuole ancora comandare? Chi vuole ancora obbedire? L'uno e l'altro è troppo molesto.
Nessun pastore e un solo gregge! Ognuno vuole la stessa cosa, ognuno è uguale. chi sente in modo diverso entra spontaneamente in manicomio.
"Un tempo tutto il mondo era pazzo", dicono i più sagaci e strizzano l'occhio.
Si è saggi e si sa tutto quello che è accaduto: così non si finisce mai di sorridere. C'è ancora chi litiga; ma ci si riconcilia presto per non guastarsi lo stomaco.
Si ha il proprio piacerucolo per il giorno e il proprio piacerucolo per la notte: ma si apprezza la salute.
"Abbiamo inventato la felicità" dicono gli ultimi uomini e strizzano l'occhio."
E qui finì il primo discorso di Zarathustra, detto anche "l'introduzione", giacché a questo punto lo interruppe il clamore e l'allegria della folla. "Dacci quest'ultimo uomo, o Zarathustra", gridavano "rendici come questi ultimi uomini e noi regaliamo a te il superuomo!" E tutto il popolo esultava e faceva schioccare la lingua.
Ma Zarathustra si rattristò e disse al suo cuore:
"Non mi comprendono: io non sono la bocca che fa per questi orecchi.
Troppo a lungo ho vissuto sulla montagna, troppo ho ascoltato il mormorio di alberi e ruscelli: ora parlo loro come ai caprai.
La mia anima è adamantina e limpida come la montagna al mattino. Ma essi credono che io sia freddo e che li schernisca con beffe feroci.
E ora mi guardano e ridono: e mentre ridono continuano ad odiarmi. Il loro riso è come il ghiaccio.