"Dal sacro Monte Kailash, nel Transhimalaya, oltre la linea delle piogge, discesi all'estremo del Capo Comorin, dove le acque di tre antichi mari si congiungono. Ed oggi so che in ambo gli estremi vi sono templi". (Miguel Serrano)

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de' Sivo e la "Conquista " del Sud

di Giorgio Massara


copertina del volume edito nel 1996


     “Ma a colui che prima ha imparato a chinare la schiena e a piegare il capo dinnanzi alla "potenza della storia", da ultimo accenna in maniera cinesemente meccanica un "sì" ad ogni potenza, sia questa un governo, un'opinione pubblica, una maggioranza numerica, e muove le sue membra precisamente a ritmo con cui una qualsiasi "potenza" tira il filo. Se ogni successo contiene in sé una necessità razionale, se ogni evento è la vittoria del logico o dell1 "idea" - ebbene ci si inginocchi subito e si percorra inginocchiati tutta la scala dei "successi". Come, non esisterebbero più mitologie dominanti? Come, le religioni sarebbero per morire? Guardate soltanto la religione della potenza storiografica, fate attenzione ai sacerdoti della mitologia delle idee e alle loro ginocchia scorticate! Non sono persino le virtù al seguito di questa nuova fede? O non è disinteresse il fatto che l'uomo storico si lasci spegnere con un soffio in un oggettivo cristallo riflettente?"(1).
  Così scriveva Federico Nietzsche nella seconda Considerazione Inattuale, critica potente a tutti gli storicismi, passati, presenti, futuri e ai loro nefasti effetti.
     Lo Storicismo, infatti, soprattutto nella sua formulazione "assoluta", tentando di ricondurre l'insieme del divenire storico ad un'unica realtà, tesa a celebrare l'identità di reale e razionale, dichiarandosi più razionalista dell'Illuminismo, perviene ad una concezione dello Stato, inteso come istituzione etica, che è stata spesso, nella pratica, strumento per l'affermazione di visioni collettivistiche e totalitarie, in cui la vera individualità non è più la persona umana, ma lo Stato, dotato contemporaneamente di carattere etico e metafisico.
     Sul piano pratico lo Storicismo si è estrinsecato in una visione manichea, alimentata ad arte dalla sofistica marxista, tra ciò che è storico e ciò che è antistorico, condannando quest'ultimo ad una sorta di perpetua ghettizzazione.
     Per interpretare in maniera intellettualmente onesta gli eventi del cosiddetto Risorgimento, è necessario superare dunque tali pregiudizi, partendo dal presupposto che il sostanziale relativismo contemporaneo ha messo in luce l'assenza di un significato unitario della Storia (e non solo della Storia), evidenziando così contraddizioni e chiaroscuri che è impossibile liquidare frettolosamente.
     Siamo stati tutti educati al rispetto, quasi sempre acritico, dei "valori" risorgimentali; nel 1960, quando molti di noi erano bambini o adolescenti, ci hanno fatto celebrare il centenario della spedizione dei Mille e ci siamo a stento risparmiati gli anniversari della Marcia su Roma.
     Uno degli spiriti più lucidi del secolo diciannovesimo, Franz Grillparzer, ha ben definito, in un aforisma, ciò che è avvenuto dalla Rivoluzione Francese in poi: "Dall'umanità alla bestialità attraverso la nazionalità"(2).
     Un classico esempio di gusto per il Nazionalismo, che fa tutt'uno con la nazionalità così come viene definita da Franz Grillparzer, ci è offerto da Edmondo de Amicis in una celebre pagina del libro Cuore. Scrive il padre ad Enrico: "Ieri sera è morto Garibaldi. Sai chi era? E’ quello che affrancò dieci milioni di Italiani dalla tirannia dei Borboni". Anche il seguito di questa pagina deamicisiana è assai eloquente: "Egli aveva la fiamma dell'eroismo e il genio della guerra... Egli fu maestro, marinaio, operaio, negoziante, soldato, generale, dittatore. Era grande, semplice, buono. Odiava tutti gli oppressori, amava tutti i popoli... In guerra portava una camicia rossa. Era forte, biondo, bello... Mille Italiani son morti per la Patria, felici, morendo, di vederlo passare di lontano vittorioso; migliaia si sarebbero fatti uccidere per lui... Ad ogni Italiano risplenderà la fronte e l'anima pronunziando il suo nome".
     Preciso immediatamente, a scanso di equivoci, che di fronte a simili asserzioni a me non risplende né la fronte né l'anima, anche perché ritengo che sarebbe stato interessante, magari, chiedere ai dieci milioni di "liberati" che cosa pensassero di una simile "liberazione".
     Questa retorica micidiale, inoltre, risulta particolarmente inquietante perché in essa è difficile non leggere varie anticipazioni. Il Risorgimento italiano, è stato osservato(3), ha più versanti: il versante garibaldino è quello con cui il Risorgimento confina direttamente col Fascismo.
     Si moltiplicano finalmente, ed era ora, gli studi storici che fanno giustizia di puerili menzogne, gabellate per oro colato, chiarendo che la spedizione garibaldina nell'Italia meridionale fu una operazione di autentica pirateria, condotta da un gruppo di uomini armati, sprovvisti di qualsiasi legittimazione giuridica, contraria alle più elementari norme del Diritto, finanziata e sorretta dal Regno Sardo e dall'Inghilterra (e prioritariamente da logge massoniche operanti all'interno di questi Stati) con l'obiettivo di ribaltare le legittime istituzioni di un pacifico Stato sovrano, annesso forzatamente dopo un "Plebiscito" artificioso, truffaldino ed ipocrita(4).
     Nel proclama rivolto alle popolazioni meridionali all'indomani dell'impresa garibaldina, Vittorio Emanuele II annunciò di "venire a chiudere il tempo delle rivoluzioni"(5).
     Gli aspetti traumatici di tale chiusura si rilevano da quanto scriveva, non molto tempo dopo, Massimo d'Azeglio: "A Napoli noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per stabilire un governo fondato sul consenso universale, ma ci vogliono, e sembra che ciò non basti, per contenere il regno sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, nessuno vuole saperne di noi"(6).
     Tra il giugno e il novembre del 1984, successivamente alla traslazione del 18 maggio nella cripta di Santa Chiara delle salme di Francesco II e di Maria Sofia, a cui resero omaggio migliaia di Napoletani, si tenne a Napoli un'interessante mostra organizzata presso i locali del Museo Pignatelli sul tema "Brigantaggio, lealismo, repressione nel Mezzogiorno. 1860-1870".
     Il materiale esposto offrì al visitatore la possibilità di cogliere con chiarezza l'elemento unificante della cosiddetta Reazione. Le modalità della resistenza, la guerriglia capace di unire aristocratici e popolo, sono infatti tali da richiamare alla mente l'epopea vandeana, la cui soffocazione ad opera delle truppe repubblicane è, secondo molti storici, il primo esempio di genocidio moderno. La mostra, inoltre, faceva giustizia di un luogo comune comprensibile che può essere formulato attraverso una citazione fatta da Bruno Iorio, e mutuata da Croce, nel suo Primato Napolitano: "... sarebbe difficile, infatti, convincere i più che la reale alternativa a Cavour sia quella che finirà con l'incarnarsi in Carmine Crocco''(7).
     Questo asserto è smentito dal fatto che a questa battaglia legittimista parteciparono nobili figure quali il conte Henri de Cathelineau, discendente diretto di uno degli eroici condottieri vandeani, il barone Klitsche de La Grange, il marchese di Namour, i conti de Christen e Calkreuth, i catalani José Borges e Raphael Tristany, reduci, questi ultimi dalla prima Guerra carlista(8), Carlo Garnier, che ci ha tramandato le cronache dell'assedio di Gaeta(9), e tanti altri.  Tra questi, vescovi scacciati dalle loro sedi, frati e sacerdoti che militarono nelle schiere degli insorgenti alla tirannia piemontese e vennero passati per le armi in caso di cattura. Tra questi, e ne ometto altri per brevità, Giacinto de' Sivo, autore, tra l'altro, del Discorso pe' morti del Volturno, finalmente ristampato, con squisita sensibilità, dal professor Bruno lorio.
     Occorre a questo punto precisare - a miglior documentazione dei nostalgici della necessità storica dell'unificazione, che sarebbe meglio chiamare, come ha fatto Carlo Alianello, Conquista del Sud(10) - alcuni dati.
     Narra la leggenda patriottica e risorgimentale, che più esatto sarebbe chiamare "leggenda nera", che mille eroi o poco più sbarcarono in Sicilia per "liberare" l'Italia. Lo stesso Garibaldi scriveva: "Più che dai contingenti isolani i Mille furono aumentati da varie spedizioni posteriori partite dal continente"(11). Conferma di tale evento ci viene data dal diario dell'ammiraglio Persano: nei tre mesi successivi al primo sbarco la flotta sarda protesse con discrezione lo sbarco in Sicilia di circa ventiduemila uomini, in buona parte soldati dell'esercito sardo congedati apposta o fatti disertare e successivamente, come è ovvio, "amnistiati" dal Re sabaudo(12).
     II 17 giugno 1860 Garibaldi emanò i primi di una lunga serie di decreti contro gli Ordini religiosi, in particolare contro Gesuiti e Redentoristi, considerati "gagliardi sostegni del dispotismo, durante lo sventurato periodo della borbonica occupazione"(13).
     Alle perquisizioni, ai maltrattamenti e alle carcerazioni - eseguite in nome e per conto dell' "eroe dei due mondi" - nei confronti di coloro che non plaudivano ai "liberatori" seguì, come ben ci descrive de' Sivo nella sua Storia delle due Sicilie, una massiccia diffusione della corruzione e dell'empietà: "I garibaldeschi - racconta de' Sivo - versavano a piene mani la miscredenza e la depravazione nel popolo. Giornalucci da un soldo movean le passioni, schizzavano i-dee sovversive, celebravano l'anarchia e la scostumatezza... Vedevi preti in grottesco, papi e cardinali, re e regine in isconci atti, i misteri, i dogmi, significati con emblemi oltraggiosi... Stillavano veleno nei cuori, sofismi nei pensieri, voluttà nei sensi; ma l'appellavano rigenerazione"(14).
     II 10 agosto 1860 Garibaldi, iniziato alla Massoneria nel 1844, ricostituì il Grande Oriente di Palermo che, in collaborazione con le Logge del Nord Italia, dette ulteriore vigore alla sua spedizione(15).
     Tra i tentennamenti del giovane sovrano Francesco II, che aprì maldestramente le finestre a correnti di aria rivoluzionaria richiamando in vigore, su ingerenza di Napoleone III, la Costituzione del 1848, e i tradimenti consumati da ufficiali e da nobili, lo Stato vacillava e a Napoli il nuovo ministro di polizia, Liborio Romano, massone di alto grado(16), reclutò i suoi uomini tra i camorristi, affidando loro i posti chiave nella amministrazione cittadina"(17) e preparandosi ad ornare i loro berretti con la coccarda tricolore.
     Ai primi di agosto del 1860 il Regno appariva perduto: la diplomazia europea era totalmente imbelle, lo scoraggiamento pervadeva coloro che erano legati alla Monarchia. Garibaldi, sbarcato in Calabria, avanzò velocemente su Napoli e Francesco II, onde evitare alla capitale gli orrori della guerra, si ritirò oltre il Volturno - denunciando la "guerra ingiusta e contro la ragione delle genti" e le "inqualificabili ostilità, sulle quali pronuncerà il suo severo giudizio l'età presente e la futura". Ribadendo con fermezza "lo sono napoletano”(18) si preparò a combattere tra le piazzaforti di Gaeta e di Capua.
     Il 7 settembre Garibaldi entrò in Napoli dove don Liborio Romano aveva mobilitato i suoi uomini, cioè i capicamorra, per rendere oceanica una adunata di popolo che tale rischiava di non essere(19).
     La capitale affondò in un'orgia di provvedimenti di confisca e di nazionalizzazione, mentre venivano di fatto rapinati oltre sei milioni di ducati appartenenti alla Casa Reale(20). Si comminarono dure pene a tutti coloro, laici e chierici(21), che manifestavano, anche a parole, avversione al nuovo regime; numerosi vescovi vennero incarcerati, altri esiliati: tutti dovettero subire spoliazioni, perquisizioni, insulti. Il cardinale Sforza, che aveva rifiutato di piegarsi alle imposizioni degli occupanti, venne esiliato a Marsiglia.
     Il dittatore, nella sua crassa ignoranza, finì per coprirsi di ridicolo decretando il libero culto per i Greco-Albanesi i quali, in quanto cattolici, ne usufruivano da sempre.
     La proclamata libertà di coscienza, la diffusione di giornali empi ed osceni, le prediche dei "frati" garibaldini - come il Pantaleo e il Gavazzi che, racconta de’ Sivo, venne preso a fischi e sassate dalla folla perché aveva "preso a dir male della Vergine"(22) e si salvò solo grazie ai camorristi che gli facevano da spalla - non riscossero il consenso dei Napoletani che si guadagnarono così la fama di popolo immaturo, ignorante e avverso alla libertà per via della "barbarie" nella quale era stato per lungo tempo immerso.
     Da allora in poi i "liberatori" si sentirono investiti dell'alta missione di "incivilirlo" senza risparmiare illegalità, menzogne ed efferatezze.
     A fronte di tali sopraffazioni, rozze e presuntuose, la popolazione impugnò le armi in difesa delle proprie tradizioni, del Re e della religione, dando inizio ad una lotta senza quartiere, rialzando i gigli abbattuti, bruciando gli odiosi ritratti di Garibaldi e Vittorio Emanuele e inneggiando a Francesco II(23).
     Questi moti spontanei, presto coordinati dal governo borbonico, ripresero il controllo del Molise e dell'Abruzzo dando inizio ad una guerra spietata contro l'invasore, che insanguinò per anni il Mezzogiorno.
     L'11 settembre le truppe del Regno di Sardegna, dopo la presentazione di una lettera-ultimatum di Cavour al cardinale Antonelli - denotante una logica da mascalzone che ci riporta alla mente la favola di Fedro dell'agnello e del lupo che, pur stando più in alto, accusava il primo di intorbidargli l'acqua - invasero i territori pontifici sconfiggendo a Castelfidardo le eterogenee unità militari papaline, costituite da migliaia di giovani accorsi dall'Europa cattolica in difesa del Papa (Raffaele de Cesare scrisse: "I Pontifici dipinti così cupamente opposero una resistenza che non si credeva... Parecchi di quei crociati di nobili famiglie legittimiste seppero combattere e morire con coraggio")(24). Dopo questi eventi, il 12 ottobre i Piemontesi invasero il Regno delle Due Sicilie in maniera del tutto proditoria. Nel frattempo si era svolta, all'inizio di ottobre, la "Battaglia del Volturno", i cui caduti furono commemorati da de' Sivo nel "Discorso", e che, senza l'invasione delle truppe sabaude, avrebbe avuto probabilmente sviluppi diversi. Mentre Francesco II si ritirava a Gaeta dove, insieme alla leggendaria consorte Maria Sofia, in mezzo al suo popolo ed al suo esercito, oppose una risoluta resistenza, si svolgeva a Napoli e nel Regno il plebiscito del 20 ottobre che doveva legittimare l'annessione. Tale evento fu, di fatto, una tragica pagliacciata. Cesare Cantò scrisse da Napoli: "Qui il plebiscito giungea fino al ridicolo, poiché oltre a chiamare tutti a votare sopra un soggetto dove la più parte erano incompetenti, senza tampoco accertare l'identità delle persone e fin votando i soldati, si deponevano in urne distinte i sì ed i no, lo che rendeva manifesto il voto; e fischi e colpi e coltellate a chi lo desse contrario. Un villano gridò: viva Francesco II! e fu ucciso all'istante"(25).
     L'ammiraglio Mundy scriveva a sua volta: "Temo che chi avesse voluto dichiararsi apertamente ostile alla sacra parola d'ordine "Italia Una", avrebbe avuto bisogno di molto coraggio morale... Secondo me, un plebiscito a suffragio universale regolato da tali formalità non può essere ritenuto veridica manifestazione dei reali sentimenti di un Paese"(26).
     "I risultati delle votazioni in Sicilia e Napoli - scriveva l'ambasciatore inglese Elliot - rappresentano appena i diciannove tra cento votanti designati; e ciò ad onta di tutti gli artifizi e violenze usate”(27).
     "Le urne - commentava Luciano Murat - stavano tra la corruzione e la violenza”(28).
     Il 13 febbraio 1861 Gaeta, ormai condannata dai cannoni rigati di Cialdini e Persano e dal tifo petecchiale che la falcidiava, cadde, nonostante l'eroismo dei difensori, riconosciuto da tutti i cronisti europei, e l'abnegazione di Francesco II e Maria Sofia.
     Il 12 marzo si arrese Messina, otto giorni dopo cadde l'eroica Civitella del Tronto, ultima roccaforte del Regno Meridionale.
     Il 17 marzo 1861 venne proclamato, su quello che somigliava sempre più ad un cumulo di rovine fumanti, il Regno d'Italia.
     Secondo la Stampa estera si contarono, nel solo periodo compreso tra il gennaio e l'ottobre del 1861, nell'ex Regno delle Due Sicilie, 9.860 fucilati, 10.604 feriti, 918 case arse, 6 paesi bruciati, 12 chiese predate, 40 donne e 60 ragazzi uccisi, 13.629 imprigionati, 1.428 comuni sorti in armi(29).
     Questi dati ben ci fanno comprendere il sacrosanto sdegno vivacemente espresso da de’ Sivo.
     Anche il costo economico dell'Unità fu altissimo: il dittatore Farini in pochi giorni accrebbe i debiti di Modena e Parma di dieci milioni, Paoli aggravò di tredici milioni la Romagna, il barone Ricasoli di cinquantasei milioni la Toscana. A Napoli, poi, la "rivoluzione moralizzatrice" cavouriana frugò e vuotò tutte le casse riuscendo ad insaccare cento milioni. Dopo questo accurato e scrupoloso saccheggio si ricorse a nuovi prestiti, creando il "Gran Libro del Debito Pubblico del Regno d'Italia": il primo prestito fu di 500 milioni, ma non bastò a colmare il debito che al primo gennaio 1862 era a quota 3.017.867 franchi a cui si sommarono 752 milioni per l'anno 1862 e 350 milioni previsti per il 1863. Nel 1866, poi, si pensò di rimpinguare le casse con le prede belliche della guerra all'Austria, ma, grazie alla bestialità dei comandanti, toccò invece all'Italia sborsarle(30).
     La legge Pica, dell'agosto 1863, segnò il culmine della repressione contro le popolazioni meridionali. Carlo Alianello, avvalendosi di una vastissima documentazione, ci ha descritto tali atrocità nella Conquista del Sud.
     Vennero distrutte e saccheggiate - ci ricorda de' Sivo ne "I Napolitani al cospetto delle Nazioni Civili" - Pontelandolfo e Casalduni, Venosa, Basile, Monteverde, San Marco, Rignano, Spinelli, Carbonara, Montefalcione, Auletta e molti altri paesi e borgate che si opponevano agli invasori”(31).
     Innumerevoli furono le stragi che non risparmiarono donne, vecchi e bambini. Scrive Alianello: "Finiamola di definirci buoni di Europa; e nessuno dei nostri fratelli del Nord venga a lamentarsi delle stragi naziste. Le S.S. del 1860 e degli anni successivi si chiamarono, almeno per gli abitanti dell'ex-reame, Piemontesi"(32).
     Questa resistenza non riuscì ad organizzarsi intorno ad una guida. Su uno dei pannelli della mostra del 1984 era scritto: "Non ci fu un cardinale Ruffo": mancarono elementi locali dotati di tempra ed acume politico, come risultò evidente dopo la fucilazione di Borges e l'arresto di Tristany e, quando si esaurirono le bellicose energie, la secessione del paziente popolo meridionale - rallegrato da tasse, miseria e coscrizione obbligatoria - si manifestò più pacificamente, ma non meno drammaticamente, nella grandiosa emigrazione transoceanica della "Nazione Napoletana"(33).
     Alexander Solgenitzin nel settembre 1994, visitando quella Vandea dove due secoli prima operarono le "colonne infernali", figlie legittime della Rivoluzione Francese portatrice di guerre, massacri e ghigliottina, ha ricordato che in ogni rivoluzione, ovunque essa scoppi, vi è una logica implacabile che conduce fatalmente al terrore e ai crimini contro l'umanità, che sono quindi da considerarsi parte integrante della Meccanica della Rivoluzione e non incidenti di percorso(34).
     La rivoluzione che abbattè il Regno Meridionale e la sua secolare dinastia non sfuggì a questa logica, fatta di intolleranza e di morte.
     Giacinto de’ Sivo, attraverso la Storia delle Due Sicilie, I Napolitani al cospetto delle Nazioni Civili, il Discorso pe1 Morti del Volturno, fu spettatore attento e veritiero di tali luttuosi eventi.
     lo non so se egli sia da considerarsi un "minore" oppure no: sono però certo che è stato capace di tramandarci la testimonianza irripetibile di un'epoca che senza di lui apparirebbe certamente più sfocata.
     Egli difese in tempi di guerre e di violenze la pace e la fratellanza fra gli uomini ed i popoli: "Anzi che abolire la idea di straniero - scrisse - la esageriamo, e risvegliamo le gelosie e le ambizioni.
     Ma questo pensiero che ne richiama ai tempi rozzi, e fa considerare nemico qualunque parli diversa lingua, è pensiero vecchio che accenna a disgiungere quanto Cristo annodava; è ritorno al paganesimo che appellava barbaro lo straniero, e lo voleva morto o servo. Ma noi siamo tutti figli d'uno Adamo, tutti fratelli; e piuttosto che evocare dalla notte de' secoli i pagani concetti della nazionalità, per isconvolgere e saccheggiare il mondo, ei sarebbe opera insigne il torre via per sempre il mal vezzo delle guerre e delle conquiste. Siccome il ricco è uguale al povero innanzi al magistrato, così la piccola Norvegia dovrebbe essere uguali all'ampia Russia innanzi al magistrato delle nazioni. E se un congresso permanente fermasse per sempre il codice internazionale, e avesse una comunale forza per la esecuzione de' suoi decreti, ei si farebbe della cristianità una sola famiglia, faria pari il debole al forte, annienterebbe le antipatie nazionali, abolirebbe tante arme parassite, e porterebbe gli uomini al vero stato civile, al quale il creatore li destinava"(35).
     de' Sivo contrappose lucidamente alla falsa unità rivoluzionaria il progetto di una "Lega Federativa" tra gli stati della Penisola, capace non di soffocare le diversità, ma di integrarle organicamente ed armonicamente, rispettando le libertà concrete e le autonomie e rivalutando quei "Corpi intermedi", tanto cari al principe di Canosa.
     "Non si può - osservò - per una nazionalità ideale distruggere le nazionalità reali”(36). Egli citò ad esempio i Cantoni svizzeri, l'Unione Americana, gli Stati Germanici. Purtroppo i sovrani preunitari si dimostrarono incapaci di realizzare politicamente tali proposte.
     Questa analisi di de' Sivo, che all'epoca parve certamente avere dei limiti, come evidenziato da Bruno lorio a proposito dell'idea di "Piccola Patria"(37), sembra oggi essere assai più attuale che non certe prospettive stataliste e monolitiche, discendenti dirette dell'Unità italiana e legate a quella perversa logica patriottarda che ci ha dato tre guerre, di cui due mondiali, ed una avventura colonialista di dubbio gusto.
     Sulla lapide di de' Sivo è scritto, tra l'altro, "A Roma il 13 dicembre 1867 ebbe fine l'esilio di Giacinto de' Sivo fu Aniello illustre per ingegno, per lettere, per tragedie. La Storia di Napoli e di Sicilia dall'anno 1847 all'anno 1861 compose con integrità e fede unica, ed in essa ogni genere di tradimento svelò per cognizione dei posteri. Agli offerti onori, purché di parere si ritrattasse, preferì il carcere. Misurò tutto secondo l'onestà, non secondo l'opinione del volgo".
     Il tratto principale di Giacinto de' Sivo, prima ancora della fedeltà adamantina al suo Re, è l'amore per la Patria napoletana, straziata dalla barbarie dei vincitori e dall'opportunismo di molti vinti.
     Può sorgere, a questo punto, la romantica tentazione di rifugiarsi negli "Annali dispersi" di una disciolta armata che combattè valorosamente e senza fortuna al Volturno, a Gaeta, a Civitella del Trento, e che sempre esisterà in quel mondo meraviglioso e fantastico che si custodisce nel cuore quale unica eredità inalienabile lasciata dai "Vinti" a tutti coloro che desiderano raccoglierla disinteressatamente.
     Può sorgere la dolce tentazione di immergersi nell'atmosfera suscitata dalla lettura dell' "Alfiere", dell' "Eredità della Priora", di "Soldati del Re", per continuare a sognare, struggentemente, cose che non esistono più, evocando i Re di Napoli che dormono a Santa Chiara, la loro "Cripta dei Cappuccini", in mezzo al loro popolo, aspettando pazientemente l'ultimo giorno del mondo.
     Ma, forse, è meglio, più semplicemente, limitarsi ad acquisire il patrimonio di dignità, di coraggio e di onestà intellettuale di Giacinto de' Sivo, valido in qualsiasi epoca, più che mai nella nostra.



NOTE:


(1) - NIETZSCHE, Opere, 1870-81, Roma,1993, pag. 371.
(2) - Cit. in F. WERFEL, Nel Crepuscolo di un Mondo, Milano, 1 980, pag. 46.
(3) - Q. PRINCIPE, Modello Garibaldi, in Studi Cattolici, n. 257-58, Luglio-Agosto 1982.
(4) - Vedi F. PAPPALARDO, Una spada contro la chiesa e la civiltà cristiana, in Cristianità n. 93.
(5) - Cit. in C. BUTTA’, Un viaggio da Boccaditalco a Caeta, Napoli, 1966, pag. 335.
(6) - Cit. in A. SCIROCCO, Brigantaggio e l'Unità d'Italia, in Brigantaggio, lealismo, repressione nel Mezzogiorno, 1860-1870, Napoli, 1984, pag. 17.
(7) - B. IORIO, Primato Napolitano, Marina di Minturno, 1990, pag. 28.
(8) - A. ALBONICO, La mobilitazione legittimista contro il Regno d'Italia: la Spagna e il Brigantaggio meridionale post-unitario, Milano, 1979. Vedi anche F. PAPPALARDO, Brigantaggio, lealismo repressione nel Mezzogiorno. 1860-70, in Cristianità n. 11 7.
(9) - C. GARNIER, Giornale dell'assedio di Gaeta, Napoli, 1971.
(10) - C. ALIANELLO, La conquista del Sud, Milano, 1972.
(11 ) - C. GARIBALDI, I Mille, Torino, 1 874, pag. 107.
(12) - C. PELLION, Diario privato, politico, militare, Torino, 1889.
(13) - Cit. in G. de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Napoli, 1964, voi. II, pag. 88.
(14) - G. de’ Sivo, op. cit., voi. II, pag. 134.
(15) - A. A. MOLA, Garibaldi vivo. Antologia critica degli scritti con documenti inediti, Milano, 1982, pag. 219.
(16) - A. Luzio, La Massoneria e il Risorgimento italiano, Bologna, 1925, voi. Il, pag. 3.
(1 7) - R. DE CESARE, La fine di un Regno, Roma, 1975, voi. Il, pag. 273.
(18) - Gazzetta di Gaeta del 14-9-1860, ristampa anastatica a cura del Centro Editoriale Internazionale, Roma, 1972.
(19) - C. de' Sivo, op. cit., voi. Il, pag. 199. C. RODENEY MUNDY, La fine delle Due Sicilie e la Marina britannica, Napoli, 1966, pagg. 201 -202.
(20) - H. Acton, Gli ultimi Borboni di Napoli, Milano, 1973, pag. 556.
(21) - P. Balan, Continuazione della Storia universale della Chiesa cattolica dell'abate Rohrbacher, Torino, 1884-86, voi. II, pagg. 289-90.
(22) - G. de’ Sivo, op. cit., voi. II, pag. 211.
(23) - Gazzetta di Gaeta, cit., 30-9-1860 e 8-10-1860.
(24) - R. De Cesare, Roma e lo Stato del Papa, dal ritorno di Pio IX al 20 Settembre, Roma, 1907, voi. II, pagg. 74-85. Vedi anche P. G. Jaeger, Francesco II di Borbone, l'ultimo re di Napoli, Milano, 1982, pag. 102.
(25) - Cit. in L. Greco, Piemontisi, briganti e maccaroni, Napoli, 1975, pag. 144.
(26) - C. R. Mundy, op. cit., pag. 217.
(27) - C. Cucentrentoli di Monteloro, La difesa della fedelissima Civitella del Tronto, 1860-61, Firenze, 1978, pag. 37.
(28) - P. C. Jaeger, op. cit., pag. 156.
(29) - C. Alianello, op. cit., pag. 133. Vedi anche D. Mack Smith, Storia d'Italia dal 1861 al 1958, Bari, 1962.
(30) - P. C. Ulloa, Lettres d'un ministre émigré, Marsiglia 1870, cit. in C. ALIANELLO, op. cit., pag. 145-46.
(31 ) - G. de' Sivo, I Napolitani al cospetto delle Nazioni civili, Bologna, 1965, pag. 79.
(32) - C. Alianello, op. cit., pag. 261.
(33) - F. Pappalardo, Brigantaggio, lealismo, etc., cit.
(34) - P. Romani, Maledetti Rivoluzionari, in "II Giornale" del 24-9-1993.
(35) - G. de’ Sivo, Napolitani etc., cit., pag. 5.
(36) - G. de’ Sivo, Napolitani etc., cit., pag. 49, pagg. 72-77.
(37) - B. IORIO, op. cit., pag. 24, nota 34.