"Dal sacro Monte Kailash, nel Transhimalaya, oltre la linea delle piogge, discesi all'estremo del Capo Comorin, dove le acque di tre antichi mari si congiungono. Ed oggi so che in ambo gli estremi vi sono templi". (Miguel Serrano)

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μύθος


1. O tempio antico, è sorta per te una luce
/ che brilla nei nostri cuori.
/ 2. Mi lamento con te dei deserti che ho attraversato,
/ dove ho lasciato scorrere incontrollate le mie lacrime;
3. Senza concedermi nessuna gioia nel riposo all’alba o al tramonto,
/ procedendo di mattina in mattina e passando di sera in sera.
/ 4. I cammelli, invero, anche se soffrono per le zampe stanche,
/ viaggiano di notte, e si affrettano nel loro andare.
/ 5. Queste bestie da soma ci hanno portato fino a te con desiderio e impazienza,
/ pur senza sperare di raggiungerti per questo.
/ 6. Hanno attraversato luoghi selvaggi e terre quasi senza piogge, spinte dalla passione;
/ e con tutto non si crucciano della fatica.
/ 7. Non si lamentano per i tormenti dell’amore;
/ sono invece io che mi lagno della fatica.
/ Davvero, ho rivendicato qualcosa d'assurdo!

(Muhyî-d-Dîn ibn al-`Arabî, Tarjumân al-Ashwâq, XXVII)

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Heligoland, l’isola sacra del mondo iperboreo
di Jean Mabire
 
     L’Europa è una gigantesca runa magica, che ha nel suo centro un luogo misterioso: la patria settentrionale degli dèi invitti di un’epoca arcaica.
     Le mappe geografiche sono documenti sacri dove si raffigurano con oceani, montagne e litorali le linee di forza di questo nostro mondo sotto il grande percorso circolare del sole. Gli uomini un tempo nascevano dalle foreste e dalle paludi, noi oggi siamo scoglio e onda, ci ancoriamo ad isole circondate dai flutti ostili di un’umanità formicolante amputata del senso primordiale delle maree e delle stagioni. Apriamo il nostro atlante sull’Europa, dove nella notte dei tempi tutto è cominciato a partire dai colori dell’ambra e del bronzo, dell’ocra e del sangue, su quest’Europa votata a ricostituire, in un momento ineluttabile, la sua plurimillenaria unità geografica ed etnica. L’Atlantico rappresenta la nostra frontiera, la nostra liquida muraglia cinese, con gli avamposti del vero impero di Mezzo. Prendiamo un righello di legno, dritto come la freccia di un arco assassino. Ciò che compieremo ora evoca un’azione magica. Non siamo forse noi alchimisti di antichi tempi ritrovati? Un primo tratto. Scaturisce da Creta, lembo estremo del mondo ellenico, terra di dèi dal volto umano di fronte alla sabbia delle religioni del deserto, laggiù a sud, la linea di vita che si slancia verso il nord-ovest e porta al cuore dell’Islanda, all’isola di ghiaccio e di fuoco, in quel luogo di ritrovo degli uomini liberi, dove la nostra fede, Yasatru, ha trovato nuovamente diritto di cittadinanza. Tra queste due isole sacre stranamente somiglianti, Creta e Islanda, rifugi delle divinità del Sud e del Nord, su questa linea immaginaria e identitaria al contempo, si innalzano nel mare del Nord, dalla patria dei Frisoni, le alte, rosse scogliere di Heligoland, isola intermedia e mediatrice tra rocce e nebbie, tra terra e cielo, tra uomini e dèi. Non chiudiamo il nostro atlante, esso è la nostra memoria e la nostra saggezza, il nostro portolano capace ancora di guidarci, secondo la traiettoria rettilinea propria di quell’uccello simbolico che i Tedeschi chiamano Möwe e i Normanni Mâove. Tra silenziosi lampi d’argento sorvoliamo a volo d’ali le antiche terre d’Europa. Sempre dritti, su questa linea che non devia mai nonostante tenebre e tempeste. Il nuovo punto di partenza è la Sierra Nevada, tempio di un’Andalusia di neve e rose. Luogo d’arrivo Capo Nord, estremità settentrionale della Norvegia {Norge in riksmaål, Noreg in landsmål) fedele al suo significato etimologico di “Strada del Nord”. E cosa sorvoliamo ancora una volta, illuminata da qualche ultimo raggio di sole al tramonto? Un’isola piccina, una fortezza solitaria ed ostinata: Heligoland, Heligoland ancora, sempre Heligoland. È molto strano il ratto che questi due tratti si intersecano esattamente in questo punto, come per designare un centro che non sarebbe solamente cartografico, bensì metafisico, al largo e nel cuore del nostro continente.
     Queste linee, che disegnano un’immensa X sulla carta d’Europa, vanno al di là della geometria, poiché tracciano in maniera perfetta una gigantesca runa che si estende per 5.000 chilometri da sud-est a nord-ovest e da sud-ovest a nord-est, attraverso i meandri delle vette e dei mari, dei popoli e delle nazioni. Questa X è la settima runa di Futhark, che gli antichi Scandinavi chiamavano Gebo, e che ai nostri occhi costituisce ormai un’ala protettrice, invisibile e imperativa, su terre e popoli d’Europa. Ascoltiamo Marie des Bois, dal suo superbo e intelligente libro di fede intitolato I sortilegi delle rune: “Gebo rappresenta il donarsi alla vita. [...] L’unione che fa la forza. [...] Gli dèi, la Natura donano ogni cosa. Soprattutto si deve far attenzione a non intaccare mai l’armonia di questa totalità. Gebo consiglia di impegnare le proprie energie senza calcolare il tornaconto, in tutto, per sé e per gli altri. [...] Di conservare le mani e l’anima aperte: la luce e l’amore vi scorrono…” È significativo che nel punto d’incontro di queste due linee incise nel cielo, come lo furono un tempo sulla pietra, si trovi con estrema precisione e inevitabilmente l’isola di Heligoland.
     Si parla di Heligoland al singolare; in realtà si tratta di due isole molto ravvicinate ma separate, il momento di un’ondata, da uno stretto braccio di mare: Heligoland – che i Tedeschi oggi scrivono Helgoland – e Dune, dove si trovano unicamente l’aeroporto e qualche edificio.
     Questo minuscolo arcipelago, di cui l’isola principale non misura più di 1.500 metri di lunghezza e 500 di larghezza, è situato a una ventina di miglia marine dal continente, al largo delle foci dei fiumi Ems, Weser, Elba e del canale di Kiel. Verso sud la bassa costa sassone, caratterizzata da dune e pascoli, protetti dal mare del Nord in virtù di una sfilza di isole tedesche parallele alla riva, nel numero di sette – cifra sacra – da Borkum a Wangerooge. A est lo Schleswig-Holstein, con le sue isole e i suoi bassifondi sabbiosi, per metà lacustre, a volte spazzato e invaso dalle terribili tempeste di vento provenienti da Occidente. Ci troviamo esattamente dentro la regione frisone, in una patria carnale che conserva ancora la sua antica lingua germanica, dove vocaboli tedeschi e inglesi si intrecciano. Presso questi Germani del mare perdura il ricordo delle antiche tribù di Sassoni, Cheruschi, Cauci, Batavi, contadini e guerrieri, uomini di mare e di terra, esseri anfibi che scorgono ancora tra le nuvole il destriero a otto gambe di Odino-Wotan. Il cavallo bianco, caro a Theodor Storm, poeta di Husum, riprende il galoppo di Sleipnir. Sotto i suoi zoccoli la sabbia e l’acqua si mescolano nello stesso mondo in cui si amalgamano cielo e terra nell’orizzonte invisibile, in un paesaggio che comprende tutto, tanto l’arida landa quanto il mare aperto senza confini. Da una Broceliande marina coperta dalle acque s’innalzano questi alti scogli che ricordano una fortezza e al contempo una cattedrale.Il nome stesso è ieratico: heiliges Land, la terra sacra, che si scrive in molteplici modi ma significa sempre una medesima realtà, quella della presenza del mistero, della comunione tra gli uomini e gli dèi, dell’incontro tra gli scogli e le nuvole, circondata da una polvere liquida sempre uguale, refrigerante e impalpabile. Protetta contro i romani invasori da un’opportuna tempesta, Heligoland è stata desiderata nel corso dei secoli da tutti i popoli settentrionali: Frisoni, Angli, Danesi, Olandesi, Sassoni. Prima di queste ondate devastatrici l’isola sacra era dieci volte più grande rispetto alla superficie attuale. Piuttosto che i monarchi del continente, a regnarvi a lungo in qualità di sovrano assoluto fu un pirata, Klaus Störtebeker, colui che assaliva le imbarcazioni della Hansa germanica alla fine del XIV secolo. La sua avventura terminò ad Amburgo, dove fu decapitato dopo una disfatta navale memorabile. Ai tempi di Napoleone e del blocco continentale, Heligoland passò dalla dominazione danese alla sovranità britannica. Per tutto il XIX secolo si vedranno sbarcarci, fradici e intirizziti, viaggiatori venuti dal continente a bordo di solidi pescherecci. L’isola sacra accolse un solitario viandante intento a ideare versi chiamati a forgiare un giorno un destino imperiale: Hoffmann von Fallersleben soggiornò su Heligoland per buona parte del settembre 1841. Dall’alto delle scogliere scoprì le tempeste d’equinozio intrecciare tutt’intorno alla fortezza marina una corona di bianca schiuma. Ispirato dal rumore del mare e sull’aria del Kaiserquartette di Josef Haydn compose in versi ambiziosi e ritmati ciò che diventò l’inno nazionale tedesco: Deutschland, Deutschland uüber alles.
     Nell’epoca in cui il poeta concepì i suoi versi ricolmi di un nazionalismo maestoso e trionfante, l’isola, di cui egli scalò i sentieri vertiginosi, era ancora proprietà dell’Inghilterra. Bisognerà attendere l’anno 1890 perché l’impero britannico la scambi con la Germania per… Zanzibar e qualche altro appezzamento di sabbia africano.
     Per mezzo secolo Heligoland coniugò una doppia vocazione – molto guglielmina – di fortificazione e di località turistica. Nelle strade del villaggio situato nella parte bassa dell’isola, ai piedi della scogliera, si potevano incrociare adepti della talassoterapia e sommergibilisti in licenza. Ai primi colpi di cannone della Grande guerra i navigatori da diporto furono rimandati sul continente, mentre gli squadroni del Kaiser e quelli di Sua Maestà si scontravano in mare aperto, fermamente decisi ad affondare uomini e cose in fondali che non superano qualche dozzina di metri. Alla fine dell’agosto 1914 il vantaggio spettava alla Royal Navy ma gli U-Boot vendicheranno gli incrociatori colati a picco. Tra le due guerre solo qualche famiglia visse sull’isola; i pescatori catturavano a dozzine di migliaia le aragoste divenute celebri su tutte le tavole delle stazioni balneari della Germania settentrionale e ancora più in là fino alla capitale del Reich.
     Una nuova guerra rese all’isola sacra irta di batterie Flak il ruolo di fortezza. La Royal Air Force giungerà a sganciare le sue bombe solamente una ventina di giorni prima della fine del conflitto. Questo bombardamento distruttore e assassino non fu il più terribile. Il peggio arriverà dopo la guerra. Gli Inglesi desideravano radere letteralmente a livello del mare la Gibilterra tedesca. Cominciarono il 18 aprile 1947 facendo esplodere 6 mila tonnellate di munizioni, poi raid aerei, detti “d’addestramento” ma con bombe vere, si succedevano in un incessante blitz infernale che durò fino alla primavera del 1952.
     Le nere nuvole di fumo puzzolente della RAF non si erano ancora dissipate quando in un cielo plumbeo dai riflessi metallici brillò una nuova esplosione. Questa volta intellettuale e illuminante. Nel 1953 il pastore di un piccolo villaggio della Frisia del Nord pubblicò un libro-bomba, Der enträtselte Atlantis. In Egitto Jürgen Spanuth aveva seguito a partire dal 1933 una pista fantastica, grazie alle iscrizioni del tempio di Medinet Habu, che trattano di invasori provenienti da settentrione, chiamati “Popoli del mare”, scappati dalle loro terre d’origine sommerse dai flutti10. Qual era la loro patria se non la misteriosa Atlantide descritta da Platone nel Clizia e nel Timeo? Lo studio dei bassorilievi ha mostrato curiose similitudini con le rappresentazioni dell’Età del bronzo. E cos’era l’oricalco se non l’ambra? Da ciò il passo per individuare il centro della “civiltà atlantidea” di origine nordica in Heligoland era breve e l’entusiasta Spanuth lo fece arditamente. Campagne di scavi sottomarini al largo dell’isola sacra degli Antichi confermarono la sua ipotesi sull’esistenza di un’immensa città sommersa. Scriverà allora un testo “definitivo”, Die Atlanter, nel quale uno dei miti più significativi del nostro mondo diviene realtà.
     Quando l’incubo dei bombardamenti inglesi terminò, i vecchi abitanti sbarcarono in un paesaggio lunare, sul quale tuttavia sorsero molto presto un villaggio tutto nuovo, una chiesa e il molo. Gli uccelli ritornarono per primi. Seguiti dai turisti, circa un milione all’anno. Ora non rassomiglia più a Gibilterra ma a Monaco. Sui dépliants turistici il sole regna senza compromessi, l’Età del bronzo non evoca che l’abbronzatura, mentre l’olio solare diventa l’ambra degenerata di cittadini palliducci.
     I vacanzieri sbarcano dalle navi da crociera ignorando tutto ciò che riguarda tanto Platone quanto Plutone e non s’immaginano minimamente che forse stanno calpestando con i loro piedi affaticati le ultime vestigia della mitica Atlantide. Non comprendono nemmeno il significato della bandiera “nazionale” che garrisce al vento pungente del mare del Nord su qualche albero maestro così come nei cuori di tutti i Frisoni di Heligoland. Tre bande orizzontali, color verde, rosso e bianco. Un motto, che conoscono ancora soltanto coloro che sono rimasti veramente fedeli all’eterna Heligoland, isolani o abitanti del continente che siano, il quale afferma:

Grün ist das Land,
Rot ist die Kant,
Wiess ist der Sand.
Das sind die Farben
Von Helgoland.

Verde è la terra, / rossa è la scogliera, / bianca è la sabbia. / Questi sono i colori / di Heligoland!

Qui, al centro di una grande e invisibile intersezione runica, si trova la patria settentrionale degli dèi invitti dell’Età del bronzo e sopravvive l’anima invendicata dei popoli del mare.

          Jean Mabire

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Carl Gustav Jung
Septem Sermones ad Mortuos
I Sette sermoni ai morti

Scritti da Basilide di Alessandria
La città in cui l’oriente tocca l’occidente

Mandala di Jung intitolato Systema munditotius elaborato nel 1916,
simbolicamente correlato alla visione cosmogonica dei Septem sermones

Sermone I
I morti erano di ritorno da Gerusalemme, dove non avevano trovato ciò che cercavano. Mi pregarono di lasciarli entrare e implorarono il mio verbo, e così iniziai il mio insegnamento. Ascoltate: io inizio dal nulla. Il nulla è uguale alla pienezza. Nell’infinito il pieno è come il vuoto. Il nulla è vuoto e pieno. Potreste dire altrettanto bene qualche altra cosa del nulla, per esempio che è bianco e nero o che non è o che è. Una cosa infinita ed eterna non ha alcuna qualità poiché ha tutte le qualità.
Noi chiamiamo il nulla o la pienezza il PLEROMA. In esso sia il pensiero che l’essere cessano, poiché l’eterno e infinito non possiede qualità. In esso non c’è essere, perché allora sarebbe distinto dal pleroma, e possederebbe qualità che lo distinguerebbero come un che di diverso dal pleroma.
Nel pleroma c’è nulla e tutto. Non giova riflettere sul pleroma, perché ciò significherebbe autodissolversi.
La CREATURA non è nel pleroma ma in se stessa. Il pleroma è inizio e fine della creatura. La pervade come la luce del sole pervade l’aria dovunque. Benché il pleroma pervada interamente, pure la creatura non ha parte in questo, come un corpo completamente trasparente non diventa ne’ chiaro ne’ scuro per via della luce che lo pervade. Noi siamo però il pleroma stesso, poiché siamo una parte dell’eterno e infinito. Ma non ne siamo parte, perché siamo infinitamente lontani dal pleroma, non spazialmente o temporalmente ma ESSENZIALMENTE, in quanto siamo distinti dal pleroma nella nostra essenza di creatura, confinata nel tempo e nello spazio.
Ma poiché siamo parti del pleroma, il pleroma è anche in noi. Infinito, eterno e intero è il pleroma anche nel punto più piccolo, poiché piccolo e grande sono qualità in esso contenute. Esso è il nulla che è dovunque intero e continuo. Solo figurativamente quindi io parlo della creatura come parte del pleroma, perché in effetti il pleroma non è diviso in nessuna parte, essendo il nulla. Noi siamo anche l’intero pleroma perché, figurativamente, il pleroma è il punto più piccolo (immaginato soltanto, non esistente) in noi e l’illimitato firmamento intorno a noi. Ma perché mai parliamo allora del pleroma, dal momento che esso è tutto e nulla?
Ne parlo per avere un qualsiasi punto d’inìzio, e per liberarvi dall’illusione che in qualche luogo, fuori o dentro, vi sia un qualcosa di fermo o in qualche modo di stabilito fin dall’inizio. Ogni cosa cosiddetta fissa e certa è soltanto relativa. Soltanto ciò che è soggetto a mutare è fisso e certo.
Ciò che è mutevole però è la creatura, quindi essa è l’unica cosa fissa e certa; perché ha delle qualità, ed è anzi qualità essa stessa.
E a questo punto domandiamoci: come fu originata la creatura? Le creature hanno origine, ma non la creatura, perché essa è la qualità del pleroma stesso, così come la non- creazione, la morte eterna. In ogni tempo e luogo c’è creatura, in ogni tempo e luogo c’è morte. Il pleroma ha tutto, distinzione e indistinzione.
La distinzione è la creatura. Essa è distinta. La distinzione è la sua essenza, e perciò essa distingue. Di conseguenza l’uomo distingue perché la sua natura è la distinzione. Perciò egli distingue anche le qualità del pleroma che non esistono. Le distingue fuori dalla sua natura. Quindi l’uomo deve parlare delle qualità del pleroma che non esìstono.
A che serve parlarne, direte? Hai detto tu stesso che è vana cosa ragionare sul pleroma!
Vi ho detto questo per liberarvi dall’illusione che si possa riflettere sul pleroma. Quando noi distinguiamo le qualità del pleroma parliamo in base alla nostra distinzione e a proposito della nostra distinzione, ma non diciamo nulla circa il pleroma. Della nostra distinzione, però, è necessario parlare, affinchè possiamo distinguere a sufficienza noi stessi. La nostra natura è distinzione. Se non siamo fedeli a questa natura non distinguiamo abbastanza noi stessi. Perciò dobbiamo fare distinzioni delle qualità.

Sermone II
Nella notte i morti stavano lungo i muri e gridavano: Vogliamo sapere di Dio. Dov’è Dio? Dio è morto?
Dio non è morto, egli vive come sempre. Dio è creatura, perché è qualcosa di definito e quindi distinto dal pleroma. Dio è qualità del pleroma, e tutto ciò che ho detto della creatura vale anche per lui.
Egli è tuttavia distinto dalla creatura perché è molto più indefinito e indeterminabile di lei. E’ meno distinto della creatura perché la base del suo essere è pienezza effettiva. Solo nella misura in cui è definito e distinto egli è creatura, e in questa misura è la manifestazione della pienezza effettiva del pleroma.
Tutto ciò che noi non distinguiamo cade nel pleroma e si annulla col suo opposto. Perciò, se non distinguiamo Dio, la pienezza effettiva è estinta in noi.
Dio è anche il pleroma stesso, così come ogni più piccolo punto nel creato e nell’increato è il pleroma stesso.
Il vuoto effettivo è la natura del demonio. Dio e demonio sono le prime manifestazioni del nulla che chiamiamo pleroma. E’ indifferente se il pleroma è o non è, poiché si annulla in ogni cosa. Non così la creatura. Nella misura in cui Dio e demonio sono creature, non si eliminano l’un l’altro, ma stanno l’uno contro l’altro come opposti effettivi. Non abbiamo bisogno di provare la loro esistenza, basta il fatto che dobbiamo sempre parlarne. Anche se entrambi non fossero, la creatura tornerebbe sempre a distinguerli dal pleroma partendo dalla sua natura di distinzione.
Tutto ciò che la distinzione estrae dal pleroma è una coppia di opposti. Perciò a Dio appartiene sempre anche il demonio.
Questa inseparabilità è così intima e, come avete appreso, così indissolubile anche nella nostra vita come lo è il pleroma stesso. Ciò deriva dal fatto che entrambi sono vicinissimi al pleroma, nel quale tutti gli opposti si annullano e unificano.
Dio e il demonio sono distinti mediante pieno e vuoto, generazione e distruzione.
L’EFFETTIVITÀ’ è comune a entrambi. L’effettività li unisce. Quindi l’effettività è al di sopra di loro ed è un Dio sopra Dio, poiché nel suo effetto unisce pienezza e vuotezza. Questo è un Dio che voi non avete conosciuto, perché gli uomini lo hanno dimenticato. Noi lo chiamiamo col nome suo ABRAXAS. Esso è più indistinto ancora di Dio e del demonio. Per distinguere Dio da lui, chiamiamo Dio Helios o sole.
Abraxas è effetto. Niente gli sta opposto se non l’ineffettivo; perciò la sua natura effettiva si dispiega liberamente. L’inefettivo non è, e non resiste. Abraxas sta al di sopra del sole e al dì sopra del demonio. E’ probabilità improbabile, realtà irreale. Se il pleroma avesse un essere, Abraxas sarebbe la sua manifestazione.
E’ l’effettivo stesso, non un effetto particolare, ma effetto in generale.
E’ realtà irreale perché non ha effetto definito.
E’ anche creatura perché è distinto dal pleroma.
Il sole ha un effetto definito, e così pure iI demonio. E quindi ci appaiono molto più effettivi di Abraxas che è indefinito.
E’ forza, durata, mutamento.
A questo punto i morti fecero un grande tumulto, perché erano cristiani.

Sermone III
Come brume sorgenti da una palude i morti si accostarono e implorarono: parlaci ancora del Dio supremo.
Abraxas è il Dio duro a conoscere. Il suo potere è il più grande perché l’uomo non lo vede. Del sole egli vede il summum bonum, del demonio l’infimum malum; ma di Abraxas la VITA, indefinita sotto tutti gli aspetti, che è la madre del bene e del male.
Più esile e debole appare la vita rispetto al summum bonum; perciò anche è difficile concepire che Abraxas trascenda in potenza perfino il sole, che è la fonte radiosa di ogni forza vitale.
Abraxas è il sole, e al tempo stesso la gola eternamente succhiante del vuoto, di ciò che sminuisce e smembra, del demonio.
Duplice è il potere di Abraxas. Ma voi non lo vedete, perché ai vostri occhi gli opposti in conflitto di questo potere si annullano.
Ciò che il Dio sole dice è vita.
Ciò che il demonio dice è morte.
Ma Abraxas pronuncia la parola santificata e maledetta che è vita e morte insieme. Abraxas genera verità e menzogna, bene e male, luce e tenebra, nella stessa parola e nello stesso atto. Perciò Abraxas è terribile.
E’ splendido come il leone nell’attimo in cui abbatte la preda. E’ bello come un giorno di primavera.
Si, è il grande Pan in persona e anche il piccolo. E’ Priapo.
E’ il mostro del mondo sotterraneo, un polipo dalle mille braccia, nodo intricato di serpenti alati, frenesia.
E’ l’ermafrodito del primissimo inizio.
E’ il signore dei rospi e delle rane che vivono nell’acqua e calpestano la terra, che cantano in coro a mezzogiorno e a mezzanotte.
E’ la pienezza che si unisce col vuoto.
E’ il santo accoppiamento,
E’ l’amore e il suo assassinio,
E’ il santo e il suo traditore,
E’ la luce più splendente del giorno e la notte più oscura della follia,
Vederlo significa cecità,
Conoscerlo è malattia,
Adorarlo è morte,
Temerlo è saggezza,
Non resistergli è redenzione.
Dio dimora dietro il sole, il demonio dietro la notte.
Ciò che Dio genera dalla luce, il demonio lo spinge nella notte. Ma Abraxas è il mondo, il suo divenire e il suo passare. Su ogni dono del Dio sole il demonio getta la sua maledizione.
Ogni cosa che chiedete supplicando al Dio sole genera un atto del demonio.
Ogni cosa che create col Dio sole da al demonio il potere di agire.
Questo è il terribile Abraxas.
E’ la creatura più possente, e in lui la creatura ha timore dì se stessa.
E’ l’opposizione manifesta della creatura al pleroma e al nulla.
E’ l’orrore che il figlio prova per la madre.
E’ l’amore che la madre prova verso il figlio.
E’ la gioia della terra e la crudeltà del cielo.
Di fronte al suo volto l’uomo impietrisce.
Di fronte a lui non c’è domanda ne’ risposta.
E’ la vita della creatura.
E’ l’operazione della distinzione.
E’ l’amore dell’uomo.
E’ la voce dell’uomo.
E’ l’apparenza e l’ombra dell’uomo.
E’ la realtà illusoria.
Allora i morti ulularono e si infuriarono, perché essi erano imperfetti.

Sermone IV
I morti invasero il luogo mormorando e dissero: Parlaci degli dei e dei demoni, maledetto!
Il Dio sole è il massimo bene, il demonio è l’opposto, perciò voi avete due dei. Ma ci sono molte cose alte e buone e molti grandi mali, e tra questi vi sono due dei-demoni; uno è QUELLO CHE BRUCIA, l’altro è QUELLO CHE CRESCE.
Quello che brucia è EROS, in forma di fiamma. La fiamma da luce consumandosi. Quello che cresce è l’ALBERO DELLA VITA. Esso germoglia ammassando nel crescere materia vivente.
Eros s’infiamma e muore, invece l’Albero della Vita cresce lento e costante per tempi incommensurabili.
Buono e male si uniscono nella fiamma.
Buono e male si uniscono nella crescita dell’albero.
Nella loro divinità vita e amore sono opposti.
Incommensurabile come la moltitudine delle stelle è il numero degli dei e dei demoni.
Ogni stella è un Dio, e ogni spazio che una stella riempe è un demonio. Ma la vuotezza e pienezza del tutto è il pleroma.
L’effettività del tutto è Abraxas, al quale sta opposto soltanto l’irreale.
Quattro è il numero degli dei principali, come quattro è il numero delle misure del mondo.
Uno è l’inizio, il Dio sole.
Due è Eros, perché unisce due insieme e si estende in splendore.
Tre è l’Albero della Vita, perché colma spazio con forme corporee.
Quattro è il demonio, perché apre tutto ciò che è chiuso. Tutto ciò che ha forma e corpo, egli lo dissolve; è il distruttore nel quale ogni cosa diventa nulla.
Me beato, a cui è stato dato di conoscere la molteplicità e diversità degli dei. Guai a voi, che sostituite questa irriducibile molteplicità con l’unico Dio. Così facendo provocate il tormento causato dall’incomprensione, e mutilate la creatura, la cui natura e il suo scopo è la distinzione. Come potete essere fedeli alla vostra natura se cercate di mutare i molti in uno? Ciò che voi fate degli dei è fatto a voi. Diventate tutti uguali e perciò la vostra natura è mutilata.
L’uguaglianza prevarrebbe non per volere di Dio ma per volere dell’uomo, perché gli dei sono molti mentre gli uomini sono pochi. Gli dei sono potenti e sopportano la loro molteplicità, perché al pari delle stelle dimorano in solitudine, divisi l’uno dall’altro da immense distanze. Ma gli uomini sono deboli e non sopportano la loro molteplicità, perciò dimorano insieme e abbisognano di comunanza per poter reggere alla loro particolarità. A scopo di redenzione io vi insegno la verità respinta, a causa della quale io sono stato respinto.
La molteplicità degli dei corrisponde alla molteplicità degli uomini.
Innumerevoli dei attendono di diventare uomini. Innumerevoli dei sono stati uomini. L’uomo partecipa alla natura degli dei, proviene dagli dei e va verso Dio.
Come non giova riflettere sul pleroma, così non giova adorare la molteplicità degli dei. Meno di ogni cosa giova adorare il primo Dio, la pienezza effettiva e il summum bonum. Con la nostra preghiera non possiamo aggiungervi nulla ne’ cavarne nulla, perché il vuoto effettivo inghiotte tutto. Gli dei splendenti formano il mondo celeste. Esso è molteplice e si espande cresce all’infinito. Il Dio sole è il Signore supremo di questo mondo.
Gli dei tenebrosi formano il mondo terreno. Sono semplici e diminuiscono e rimpiccioliscono all’infinito. Il demonio è l’infimo signore del mondo terreno, lo spirito lunare, satellite della terra, più piccolo, più freddo e più morto della terra.
Non c’è differenza tra il potere degli dei celesti e quello degli dei terrestri. Gli dei celesti diventano sempre più grandi, gli dei terrestri sempre più piccoli. Incommensurabile è il movimento degli uni e degli altri.

Sermone V
I morti urlarono in tono di derisione: Insegnaci, folle, la tua dottrina sulla Chiesa e sulla santa comunione.
Il mondo degli dei si manifesta nella spiritualità e nella sessualità.
Gli dei celesti compaiono nella spiritualità, quelli terrestri nella sessualità.
La spiritualità concepisce e abbraccia. Essa è femmina e perciò la chiamaia MATER COELESTIS, madre celeste.
La sessualità genera e crea. Essa è maschile, e perciò la chiamano PHALLOS, il padre terrestre.
La sessualità dell’uomo è più terrestre, la sessualità della donna è più spirituale.
La spiritualità dell’uomo è più celeste, procede verso il più grande.
La spiritualità della donna è più terrestre, procede verso il più piccolo.
Menzognera e diabolica è la spiritualità dell’uomo che procede verso il più piccolo.
Menzognera e diabolica è la spiritualità della donna che procede verso il più grande.
Ognuna deve procedere verso il proprio luogo.
Uomo e donna diventano demoni l’uno per l’altra quando non dividono le loro strade spirituali, perché la natura della creatura è la distinzione.
La sessualità dell’uomo va verso il terrestre, la sessualità della donna verso lo spirituale.
Uomo e donna diventano demoni l’uno per l’altra se non distinguono la loro sessualità.
L’uomo deve imparare a conoscere il più piccolo, la donna il più grande.
L’uomo deve distinguersi sia dalla spiritualità che dalla sessualità. Deve chiamare la spiritualità Madre e porla tra il cielo e la terra. Deve chiamare la sessualità Phallos e porlo tra sé e la terra, perché la Madre e il Phallos sono demoni sovrumani e manifestazioni del mondo degli dèi. Essi sono più effettivi per noi che non gli dei, poiché sono similissimi alla nostra natura. Se non vi distinguete dalla sessualità e dalla spiritualità, e non le considerate come una natura al di sopra di voi e intorno a voi, diventate loro preda come qualità del pleroma. Spiritualità e sessualità non sono vostre qualità, non sono cose che possedete e contenete: esse posseggono e contengono voi, perché sono demoni potenti, manifestazioni degli dei, e quindi cose che vanno al di là di voi, esistenti per se stesse. Nessun uomo ha una spiritualità di per sé, o una sessualità di per sé, ma sta sotto la legge della spiritualità e della sessualità. Perciò nessuno sfugge a questi demoni. Dovete considerarli demoni, e un compito e pericolo comune, un fardello comune che la vita ha posto sulle vostre spalle.
Quindi la vita è per voi anche un compito e un pericolo comune, come lo sono gli dei, e primo fra tutti il terribile Abraxas.
L’uomo è debole, perciò la comunione è indispensabile. Se la vostra comunione non è sotto il segno della Madre, allora è sotto il segno del Phallos. Nessuna comunione è sofferenza e malattia. La comunione in ogni cosa è smembramento e dissoluzione.
La distinzione porta all’unicità. L’unicità è opposta alla comunione. Ma, data la debolezza dell’uomo a petto degli dèi e dei demoni e della loro legge invincibile, la comunione è necessaria. Perciò ci dev’essere tanta comunione quanta è necessaria, non a causa dell’uomo ma a causa degli dei. Gli dei vi forzano alla comunione. E quanto più vi forzano, tanto più occorre comunione, più è male.
Nella comunione ogni uomo si sottometta agli altri, di modo che la comunione sia mantenuta, perché voi ne avete bisogno.
Nell’unicità l’uomo singolo dev’essere superiore agli altri, di modo che ogni uomo appartenga a se stesso ed eviti la schiavitù.
Nella comunione ci dev’essere continenza, nell’unicità ci dev’essere prodigalità.
La comunione è la profondità, l’unicità è l’altezza.
La giusta misura nella comunione purifica e preserva.
La giusta misura nell’unicità purifica e aggiunge.
La comunione ci da il calore.
L’unicità ci da la luce.

Sermone VI
II demone della sessualità si accosta alla nostra anima come una serpe. E’ per metà anima umana e significa desiderio di pensiero. Il demone della spiritualità scende nella nostra anima come l’uccello bianco. E’ per metà anima umana e significa pensiero di desiderio. La serpe è un’anima terrena, per metà demoniaca, uno spirito, e simile agli spiriti dei morti. Al pari di questi si aggira fra le cose della terra, facendocele temere o facendo sì che eccitino la nostra bramosia. La serpe ha una natura femminile e cerca sempre la compagnia dei morti legati all’incantesimo della terra, quelli che non hanno trovato la via per passare al di là, all’unicità. La serpe è una meretrice e fornica col diavolo e con gli spiriti malvagi, è un tiranno nefasto e uno spirito tormentatore, che sempre seduce alla comunione più malvagia. L’uccello bianco è un’anima semi-celeste dell’uomo. Esso dimora presso la Madre e discende di quando in quando. L’uccello è maschile ed è pensiero effettivo. E’ casto e solitario, messaggero della Madre. Vola alto sulla terra. Ispira unicità. Porta conoscenza dai lontani che vennero prima e sono perfetti. Porta la nostra parola in alto, alla Madre. Questa intercede, ammonisce, ma non ha alcun potere contro gli dei. E’ un vaso del sole. La serpe scende e paralizza con l’astuzia il demone fallico, oppure lo pungola. Porta alla luce i pensieri astutissimi del terrestre, che strisciano per ogni crepa e aderiscono dovunque succhiando con bramosia. La serpe, certo, non lo vuole, eppure deve esserci utile. Essa sfugge alla nostra presa, mostrandoci così la vìa che con la nostra intelligenza umana non troveremmo. I morti gettarono occhiate sdegnose e dissero: Cessa di parlare di dèi e demoni e anime. Al fin fine questo ci era noto da tempo.

Sermone VII
Ma quando la notte scese i morti tornarono ad accostarsi con gesti lamentosi e dissero: C’è una cosa ancora che abbiamo dimenticato di discutere. Parlaci dell’uomo. L’uomo è una porta attraverso la quale, dal mondo esterno degli dei, dei demoni e delle anime, voi passate nel mondo interiore; dal mondo grande al più piccolo. Piccolo è l’uomo, una nullità, voi lo avete già alle spalle e vi trovate una volta ancora nello spazio senza fine, nell’infinità più piccola o più intima. A incommensurabile distanza c’è una singola stella allo zenith. Questa è il Dio singolo di questo singolo uomo, è il suo mondo, il suo pleroma. la sua divinità. In questo mondo l’uomo è Abraxas, che genera o ingoia il suo mondo. Questa stella è Dio e la meta dell’uomo. E’ il suo Dio singolo che lo guida. In lui l’uomo giunge al riposo, verso di lui procede il lungo viaggio dell’anima dopo la morte, in lui brilla come luce tutto ciò che l’uomo riporta dal mondo più grande. Questo è il solo Dio che l’uomo deve pregare. La preghiera accresce la luce della stella, getta un ponte sopra la morte, prepara la vita per il mondo più piccolo, e lenisce i desideri senza speranza del mondo più grande. Quando il mondo più grande si raffredda, la stella risplende. Nulla c’è tra l’uomo e il suo singolo Dio, per quanto l’uomo possa distogliere gli occhi dallo spettacolo fiammeggiante di Abraxas. Qui l’uomo, là il Dio. Qui debolezza e nullità, là potere eternamente creativo. Qui null’altro che tenebra e vapore glaciale, Là il sole e nient’altro che sole. A questo punto i morti si fecero silenziosi e ascesero come il fumo sopra il fuoco del pastore che nella notte custodiva il suo gregge.

ANAGRAMMA:
NAHTRIHECCUNDE
GAHINNEVERAHTUNIN
ZEHGESSURKLACH
ZUNNUS.

Nota

Jung fece pubblicare privatamente i “Septem Sermones ad Mortuos” (Sette sermoni ai morti) in forma di opuscolo. Il libretto non fu mai in vendita in libreria. Furono scritti negli anni 1913 -1917. Il libretto contiene cenni e anticipazioni metaforiche di pensieri che assunsero peso successivamente nell’opera scientifica di Jung, specie per quanto concerne la natura antitetica dello spirito, della vita e delle asserzioni psicologiche. A spingere Jung verso gli gnostici fu il loro modo di pensare per paradossi. Perciò Jung si identificò qui con lo scrittore gnostico Basilide (inizio del II secolo d.C.) e assunse perfino parte della sua terminologia: per esempio. Dio inteso come ABRAXAS. Fu un deliberato gioco mistificatorio. Jung acconsentì alla pubblicazione dei “Sette Sermoni” nelle sue Memorie solo dopo molte esitazioni e “per amore di onestà”. Non rivelò mai la chiave dell’anagramma che conclude l’opera.
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Il barone sanguinario
     Il libro di F. Ossendowsky Bestie, uomini e dèi, della cui traduzione italiana si sta preparando una ristampa, ebbe già una vasta notorietà quando uscì, nel 1924. in esso hanno interessato il racconto delle peripezie del viaggio movimentato che l’Ossendowsky fece nel 1921-22 attraverso l’Asia centrale per sfuggire ai bolscevichi, ma anche ciò che egli riferisce sia circa un personaggio d’eccezione da lui incontrato, il barone Von Ungern Sternberg, sia su ciò che ebbe a udire sul cosiddetto "Re del Mondo". Qui vogliamo riprendere sia l’uno che l’altro punto.
    Intorno all’Ungern Sternberg si era creato quasi un mito, nella stessa Asia, al segno che in alcuni templi della Mongolia egli sarebbe stato adorato come una manifestazione del dio della guerra. Di lui, è stata anche scritta una biografia romanzata in tedesco, dal tiolo "Io comando" ("Ich befehle"), mentre dati interessanti sulla sua personalità forniti dal comandante dell’artiglieria del suo esercito sono stati pubblicati dalla rivista francese "Etudes Traditionelles". Noi stessi avemmo da udire dello Stenberg da suo fratello che doveva essere vittima di un tragico destino: scampato dai bolscevichi e raggiunta l’Europa via Asia dopo ogni specie di vicissitudini romanzesche, lui e sua moglie furono uccisi da un portinaio impazzito quando Vienna fu occupata nel 1945.
     Ungern Sternberg proveniva da un’antica famiglia baltica di ceppo vichingo. Ufficiale russo, allo scoppiare della rivoluzione bolscevica comandava in Asia dei reparti di cavalleria, i quali a poco a poco si ingrossarono fino a divenire un vero e proprio esercito. Con esso, Ungern s’intese a combattere fino all’ultima possibilità la sovversione rossa. È dal Tibet che egli operava: e il Tibet egli liberò dai Cinesi che ià allora ne avevano occupato una parte, entrando in intimi rapporti col Dalai Lam, da lui liberato.
     Le cose si svilupparono a tal segno da preoccupare seriamente i bolscevichi che, ripetutamente sconfitti, furono costretti ad organizzare una campagna in grande stile, utilizzando il cosiddetto "Napoleone Rosso", il generale Blucher.
    Dopo alcune alterne vicende, Ungern doveva venire sopraffatto, il tracollo essendo stato provocato dalla defezione proditoria di alcuni reggimenti cecoslovacchi. Circa la fine di Ungern, vi sono versioni contrastanti; non si sa nulla di preciso. In ogni modo, si vuole che egli conoscesse con esattezza il termine della sua vita, come pure alcuni articolari circostanze ad esempio: che egli sarebbe stato ferito, come lo fu, durante l’attacco a Durga.
     Qui, dello Sternberg, interessano due aspetti. Il primo riguarda la sua stessa personalità, nella quale tratti singolari erano mescolati. Uomo di un prestigio eccezionale e di un ardire senza limiti, egli era anche di una crudeltà spietata, di una inesorabilità nei confronti dei bolscevichi, suoi nemici mortali. Donde il nome che gli venne dato: "il barone sanguinario".
     Si vuole che una grande passione avesse "bruciato" in lui ogni elemento umano, non lasciando sussisteree in lui che una forza incurante della vita e della morte. In pari tempi, in lui erano presenti tratti quasi mistici. Già prima di recarsi in Asia egli professava il buddismo (il quale non si riduce affatto ad una dottrina morale umanitaria), e le relazioni che egli ebbe con i rappresentanti della tradizione tibetana non si limitavano al dominio esteriore, politico e militare, nel quadro degli avvenimenti dianzi accennati. Alcune facoltà sovranormali erano presenti in lui: si parla ad esempio, di una specie di chiaroveggenza che gli permetteva di leggere nell’animo altrui secondo una percezione esatta quanto quella delle cose fisiche.
     Il secondo punto riguarda l’ideale che Ungern accarezzava. La lotta contro il bolscevismo avrebbe dovuto essere la diana per un’azione assai più vasta. Secondo Ungern, il bolscevismo non era un fenomeno a sé, ma l’ultima, inevitabile conseguenza dei processi involutivi realizzatisi da tempo in tutta la civiltà occidentale. Come già Mettternich, egli credeva – giustamente – una continuità delle varie fasi e forme della sovversione mondiale, dalla rivoluzione francese in poi. Ora secondo Ungern, la reazione avrebbe dovuto partire dall’Oriente, da un Oriente fedele alla proprie tradizioni spirituali e coalizzato contro l’incombente minaccia, insieme a quanti fossero capaci di una rivolta contro il mondo moderno. Il compito primo avrebbe dovuto essere spazzar via il bolscevismo e liberare la Russia.
     Peraltro è interessante che, secondo alcune fonti abbastanza attendibili, Ungern, quando si era fatto il liberatore e il protettore del Tibet, in relazione con un tale piano avrebbe avuto contatti segreti con esponenti delle principali forze tradizionali, non soltanto dell’India ma anche del Giappone e dell’Islam. A poco a poco si sarebbe dovuti giungere a questa solidarietà difensiva e offensiva di un mondo non ancora intaccato dal materialismo della sovversione.
     Passiamo ora al secondo argomento, a quello del cosiddetto "Re del Mondo". L’Ossendowsky riferisce quel che Lama e capi dell’Asia centrale ebbero a raccontargli circa l’esistenza di un misterioso centro-iniziative chiamato l’Aghartta, sede del "Re del Mondo". Esso sarebbe sotterraneo e per mezzo di "canali" sotterranei sotto i continenti ed anche gli oceani avrebbe comunicazioni con tutte le regioni della terra. Come Ossendowsky ebe ad udirle, tali notizie presentarono un carattere fantasioso. È merito di René Guénon l’aver messo in luce, nel suo libro "Le Roi du Monde", il vero contenuto di questi racconti, non senza rilevare il fatto, significativo, che nell’opera postuma di Saint-Yves d’Alveydre intitolata "La mission des Indes" uscita nel 1910, di certo non conosciuta da Ossendowsky, si fa cenno allo stesso centro misterioso.
     Ciò che va, anzitutto chiarito è che l’idea di una sede sotterranea (difficile da concepire già per il problema degli alloggiamenti e degli approvvigionamenti, se non abitata da puri spiriti) deve essere resa piuttosto con quella di un "centro invisibile". Quanto al "Re del Mondo" che vi risiederebbe, si è riportati alla concezione generale di un governo o controllo invisibile del mondo o della storia, e il riferimento fantasioso ai "canali sotterranei" che fanno comunicare quella sede con vari paesi della terra va parimenti smaterializzato nei termini di influenze, per così dire, da dietro le quinte, esercitate da quel centro.
     Però assumendo tutto ciò in codesta forma più concreta, sorgono vari problemi ove si consideri la attualità. Vi è che lo spettacolo offerto dal nostro pianeta in modo sempre più preciso conforta assai poco l’idea dell’esistenza di questo "Re del Mondo" con le sue influenze, se questi debbono essere concepite come positive e rettificatrici.
     Ad Ossendowsky i Lama avrebbero detto: "Il Re del Mondo apparirà dinanzi a tutti gli uomini quando per lui sarà venuto il momento di guidare tutti i buoni nella guerra contro i malvagi. Ma questo tempo non è ancora venuto. I più malvagi dell’umanità non sono ancora nati". Ora, questa è la ripetizione di un tema tradizionale noto anche in Occidente fin dal Medioevo.
     L’interessante propriamente è che, come si è detto, all’Ossendowsky un simile ordine di idee sia stato presentato nel Tibet da dei Lama e da dei capi dei paesi, con riferimento ad un insegnamento esoterico. E il modo piuttosto primitivo con cui Ossendowsky riferisce ciò che egli ebbe ad udire, innestandolo nel racconto delle sue peregrinazioni, fa pensare che non si tratta di una sua escogitazione.

               Julius Evola

(dal Roma del 9 febbraio 1973)
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 (da http://buddhismoitalia.forumcommunity.net/)

     Riportiamo un articolo dell'illustre orientalista Pio Filippani Ronconi sulla figura del barone Roman von Ungern-Sternberg, appartenente ad una famiglia nobiliare praticante il buddhismo ed ufficiale della cavalleria russa divenuto condottiero dell'armata bianca durante la guerra civile russa, khan dei popoli delle steppe e difensore del Dharma.
     Il XIII Dalai Lama riconobbe in lui un'ipostasi di Mahakala. Personalmente sono profondamente affascinato dalla figura di questo nobile europeo che abbracciò il Dharma e pose la propria spada a sua difesa, e trovo che la sua vicenda porti a riflettere sul reale significato del precetto dell'ahimsa e sulla natura marziale che al mio sguardo da profano caratterizza la Dottrina del Risveglio, per usare la bellissima espressione con cui Evola definiva l'insegnamento del Buddha.

Román Fiodórovic von Ungern-Sternberg

     All’alba del 17 settembre 1921, cadeva fucilato a Novonikolajevsk, secondo altri a Verkhne-Udinsk, presso il confine mongolo, il comandante della divisione asiatica di cavalleria, barone Román Fiodórovic von Ungern-Sternberg, ultimo difensore della Mongolia “esterna” indipendente e della Siberia “bianca”. Con la morte del “Barone pazzo” nulla piú si opponeva al dilagare dell’esercito bolscevico di Blücher nell’Estremo Oriente siberiano e la fase guerreggiata della Rivoluzione si concludeva.
     L’effimera meteora del Barone e le disperate imprese della sua divisione non ebbero, in fondo, un effetto determinante su quest’ultimo scorcio della Guerra Civile, specialmente dopo il crollo dell’esercito bianco di Kolcak che, battuto il 14 novembre 1919 ad Omsk, aveva praticamente cessato di esistere. Invece, l’importanza del barone Ungern e del suo variopinto esercito, formato da Cosacchi della Trans-baikalia, da Buriati, Mongoli, volontari Tibetani e Guardie Bianche di ogni provenienza, era soprattutto di natura spirituale. Il Barone, religiosamente affiliato ad una corrente tantrica facente capo allo Hutuktu di Ta-Kuré e suo braccio militare durante l’anno in cui fu padrone della Mongolia esterna, aveva sin dal principio, cioè sin dalla conferenza panmongola di Cita del 25 febbraio 1919, dichiarato la sua intenzione di ristabilire la teocrazia lamaista nel cuore dell’Asia, «affinché da lí partisse la vasta liberazione del mondo». La controrivoluzione era per lui solo un pretesto per evocare sul piano terreno una gerarchia già attuata su quello invisibile. Questa gerarchia doveva proiettarsi su un mandala, un mesocosmo simbolico, il cui centro sarebbe stata la “Grande Mongolia”, comprendente, oltre alle sue due parti geografiche, l’immenso spazio che dal Baikal giunge allo Hsin-Kiang e al Tibet. Ivi, pensava, si sarebbe attuata la rigenerazione del mondo sotto il segno del Sovrano dell’agarttha (“inafferrabile”) Shambala, la “Terra degli Iniziati”, ove Zla-ba Bzan-po e i suoi 24 successivi eredi perpetuavano il segreto insegnamento del Kalacakra, la “Ruota del Tempo”, loro impartito dal Risvegliato 2500 anni fa.
     2500 anni è esattamente la metà del ciclo di 5000 che, secondo la tradizione, separa l’apparizione dell’ultimo Buddha terrestre, Gautama Sakyamuni, dall’avvento del successivo Maitreya, figura probabilmente mutuata dallo zoroastriano Mithra Saosyant, “Mithra il Salvatore” (difatti l’iconografia buddhista lo rappresenta tradizionalmente come un principe “seduto al modo barbarico”, cioè assiso all’europea). Lo stesso Hutuktu di Urga, che Ungern, liberandolo dai Cinesi, aveva ristabilito sul trono, terza autorità nella gerarchia lamaista dopo il Dalai Lama di Lhasa e il Panc’en Lama di Tashi-lhumpo, era teologicamente considerato quale proiezione fisica (sprul-sku) di Maitreya, prefigurazione, quindi, del Buddha venturo. Ungern, consapevole nonostante questa vittoria della sua fine imminente, si rendeva conto di trovarsi in un istante “apicale” del divenire della storia, come se fosse nel cavo fra due onde, un attimo prima che rovinino in basso. Pertanto, nel suo breve periodo di governo ad Urga (dal 2 febbraio all’11 luglio 1921) cercò di tramutare questo istante in un “periodo senza tempo” che permettesse allo Hutuktu di compiere la sua opera spirituale, liberandolo dalla pressione esterna dei due poteri che incombevano: la Cina dei “Signori della Guerra” dal Sud, e la valanga bolscevica che muoveva inarrestabile dal Nord, dalla Siberia.
     Erano tempi terribili in cui, piú che dal potere delle armi, gli eventi sembravano determinati da forze promananti da una sorta di magia infera. Coloro che furono testimoni degli sconvolgimenti determinati dalla Rivoluzione di Ottobre ricordano la spaventevole automaticità medianica con cui le “forze rivoluzionarie” demolivano le strutture della vita civile cosiddetta “borghese” e le vestigia dell’ordine antico. Le masse si coagulavano in quegli strati della società in cui maggiormente era assente il principio dell’“Io” autocosciente, fra i miseri, i vagabondi, gli allucinati sopravvissuti dai Laghi Masuri e dalle battaglie della Galizia, i fanatici, i tarati e tutti coloro per i quali la ferocia belluina era alimento quotidiano dell’anima. Ai rivoluzionari non si scampava: mossa come da un’ispirazione demoniaca, la “giustizia del popolo” colpiva infallantemente i nemici della Rivoluzione un momento prima che si muovessero. Il Terrore era guidato da una occulta saggezza che nulla aveva a che fare con la brillante intelligenza di coloro (Trockij, Kamenev, Zinoviev ecc.) che lo avevano scatenato e pensavano di dirigerlo: una saggezza che realmente promanava dall’elemento preindividuale della “massa”, come le forze fisico-chimiche che provocano un terremoto o la fuoriuscita della lava da un vulcano.
     Ungern chiaramente si rendeva conto di tutto ciò e, dalle sue conversazioni con l’ingegnere Ossendowski, già ministro delle Finanze nel governo di Kolcak, risulta evidente come egli cercasse di evocare misticamente il principio opposto, quello solare, che segnava il suo stendardo, riferendosi ad una cultura, quella tantrico-buddhista, che da due millenni lo coltivava. Soltanto che la sua ascesi personale non poteva diventare il mezzo strategico di vittoria per i suoi cinquemila cosacchi, russi sí, mistici forse, ma fatalmente appartenenti ad un mondo orientato verso un’esperienza dello Spirito volta al mondo sensibile esteriore. Nel suo Uomini, Bestie e Dèi, che è la narrazione della sua fuga dalla Siberia alla Mongolia, Ossendowski ci ha lasciato un’impressionante descrizione degli eventi, ma, molto di piú, dell’allucinata atmosfera che regnava sulla ufficialità che attorniava il Barone e fra le sue truppe, sottomesse da anni a spaventose fatiche e ad una disciplina rigidissima e, per giunta, consapevoli del disastro imminente. La narrazione dell’Ossendowski verrà in seguito aspramente criticata (fra gli altri dallo stesso Sven Hedin) per la parte riguardante i suoi viaggi fra gli Altai e la Zungaria. Resta, però, intatta la sua testimonianza sulla figura e sulle avventure del Barone e, soprattutto, sul senso “magico” del destino che ivi si compiva.
    Ricordo perfettamente la straordinaria impressione che suscitò nell’Europa distratta e frenetica degli anni Venti, anche fra i lettori piú materialisti e intenti negli affari contingenti, la relazione sul collegamento mistico fra lo Hutuktu, il Bodhisattva incarnato, il Barone Ungern e il Re del Mondo, presenza invisibile ma concretamente percepibile che conferiva un significato trascendente al sacrificio a cui i Cosacchi, il fiore dei popoli russi, andavano incontro. Questo motivo del “Re del Mondo” dette fuoco alle polveri di innumerevoli discussioni, specialmente fra coloro che si accorgevano che non si trattava di una invenzione letteraria. Fra gli altri, lo stesso René Guénon lo sottopose ad una critica serrata nel suo Le Roi du Monde, dimostrandone la fondatezza, in un’epoca in cui la Scienza orientalistica praticamente nulla sapeva del mito di re Chandra-bhadra (tib. Zlâ-ba Bzan-po) depositario di una sentenza segreta comunicatagli dal Buddha, e soprattutto ignorava la saga del suo Regnum spirituale, una specie del Castello del Graal, che storici e geografi si sono in seguito affannati a ricercare in vari luoghi del Tibet e della valle del Tarim in Asia Centrale: regno visibile solo agli Eletti, che però si renderà manifesto a tutti sotto il ventiquattresimo erede di Chandra-bhadra, quando la sapienza del Kalacakra emergerà per illuminare gli uomini circa la coincidenza della loro interiorità purificata e l’Universo degli archetipi.
     La leggenda di questo Barone baltico, di stirpe germanico-magiara che, rivestito della tunica gialla del lama sotto il mantello di ufficiale imperiale, e spiegando davanti agli squadroni lo stendardo mongolo, procede “nella direzione sbagliata”, verso Ovest anziché verso Est, ove chiaramente si sarebbe salvato, è tipicamente russa, ricollegandosi al motivo sacrificale della zértvjennost’ (“l’offrirsi come vittima”) per l’istaurazione del Figlio della Benedizione sulla Terra Madre, che in veste poetica era stata enunciata dallo stesso Solovjèv.
    Nell’ultimo rapporto ufficiale, tenuto ai princípi di agosto 1921, quando la divisione asiatica di cavalleria si trovava sul fiume Selenga intenta ad interrompere la Transiberiana fra Cita e Kiakhta, egli impartí l’ordine apparentemente assurdo di compiere la conversione verso Ovest, indi verso Sud, avendo come meta gli Altai e la Zungaria. In quella occasione disse esplicitamente al generale Rjesusín che si proponeva di raggiungere, attraverso lo Hsin Kiang cinese, niente di meno che la “fortezza spirituale tibetana”, ove rigenerare se stesso e i laceri resti della sua divisione. Assassinato il suo amico Borís la sera stessa dagli ufficiali in rivolta e morti gli ultimi fedeli, egli mosse solitario verso una direzione che non aveva piú rapporto con la realtà geografica del luogo e militare della situazione, nel postremo tentativo, non di salvare la vita, bensí di ricollegarsi prima di morire con il proprio principio metafisico: il Re del Mondo.
    La sua disperata migrazione verso il Sole che tramonta era in realtà un ultimo atto di culto verso la Luce che aveva sorretto le sue imprese. Trascorse la sua ultima notte di libertà nella yurta del calmucco Ja lama. Il Barone si avvide, forse, del significato del nome del suo ospite: Ja, abbreviazione in dialetto khalka del mongolo Jayagha, “fato”, “esistenza”, “destino”, karma. E il “fato” lo consegnerà la mattina seguente alle Guardie Rosse di Shentikín, il fiduciario di Blücher. Era il 21 agosto. Regolarmente processato nel sovjet di Novonikolayevsk, senza che gli venissero toccate le spalline e la croce di San Giorgio, viene accusato di “complotto anti-sovietico per portare al trono Mikhail Romanov, efferatezze ed assassinio di masse di lavoratori russi e cinesi”. Condannato, viene fucilato due giorni piú tardi.
     Nello stesso tempo, in un angolo della lontanissima Europa, nella Germania sconquassata del primo dopoguerra, il mito del Re del Mondo giungeva per vie misteriose a gruppi di giovani intellettuali, corroborando con il suo simbolo solare i nuovi meditatori del “Vril” e le assisi della Thule-Gesellschaft.

               Pio Filippani-Ronconi