"Dal sacro Monte Kailash, nel Transhimalaya, oltre la linea delle piogge, discesi all'estremo del Capo Comorin, dove le acque di tre antichi mari si congiungono. Ed oggi so che in ambo gli estremi vi sono templi". (Miguel Serrano)

scrivici a: campania@snami.org

----------------------------- accessi al sito negli ultimi 30 giorni ----------------------------

BACHECA

- sabato 20 e domenica 21 giugno il Comitato Centrale si riunisce a Tivoli

- venerdì 23 maggio 2014 è stata stipulata la Convenzione SNAMI Campania-Club Medici che, tra i vari servizi, offre una polizza assicurativa per la responsabilità civile professionale

------------------------------------ il quadro della settimana ------------------------------------

------------------------------------ il quadro della settimana ------------------------------------
------------------------ Edwin Austin Abbey 1852-1911 The Castle of Maidens 1893-1902 ------------------------

poesia

poesia
--------------------------------------------- clikka sul testo e vai a "Poesia" ---------------------------------------------

libri e libri

 

Shlomo Sand
L' Invenzione del popolo ebraico
RIZZOLI SAGGI


 
L' Invenzione del popolo ebraico
L’ORIGINE ANTICA E LE VICENDE DI UN POPOLO STRAORDINARIO: VERITÀ STORICHE O MITI E TABÙ CHE DEVONO ESSERE DISTRUTTI?
“FORSE L’EBRAISMO È SOLTANTO UN’AFFASCINANTE
RELIGIONE.”

Che cos’è il popolo ebraico? Secondo Shlomo Sand, la risposta si trova nella Storia. Non, però, in quella ufficiale, costruita e avallata da studiosi che hanno abilmente manipolato le fonti per creare una visione unitaria e coerente del passato. Di fatto, miti fondativi dalla storicità dubbia, come l’esilio babilonese, la conquista del paese di Canaan o la monarchia unita di Davide e Salomone, sono diventati le colonne di una ricostruzione della storia degli ebrei presentata come una sorta di percorso ininterrotto che dall’epoca biblica si dipana senza soluzione di continuità fino ai giorni nostri. Ma davvero esiste un “popolo ebraico” omogeneo, costretto all’esilio dai Romani nel primo secolo, un gruppo etnico la cui purezza è sopravvissuta a due millenni, una nazione finalmente tornata nella sua patria perduta? Nulla di tutto ciò: in realtà, sostiene Sand, gli ebrei discendono da una pletora di convertiti, provenienti dalle più varie nazioni del Medioriente e dell’Europa orientale. Ma la storiografia di stampo nazionalista ha fornito fondamento e giustificazione all’impresa di colonizzazione sionista. Con rigore e vis polemica, Shlomo Sand scuote una delle fondamenta dell’esistenza stessa dello Stato d’Israele e della sua politica identitaria. E senza timore di intaccare certezze consolidate — come dimostra l’acceso dibattito che ha fatto seguito alla pubblicazione del volume in Israele, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti — intraprende un viaggio a ritroso nella storia e nella storiografia ebraiche basandosi su fonti e reperti archeologici per ricostruire e affermare una nuova verità. Lo anima la speranza in una società israeliana aperta e multiculturale perché “se il passato della nazione è stato soprattutto un sogno perché non cominciare a sognare un nuovo futuro, prima che il sogno si trasformi in un incubo?”
 
Shlomo Sand è professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Tel Aviv. Formatosi in Israele e in Francia, è specializzato in Storia dell’Europa occidentale. L’invenzione del popolo ebraico, la sua opera più discussa, è stata tradotta in inglese, francese, russo e arabo.


__________________________


IL DRACULA DEI MONGOLI
QUEL SIGNORE DELLA GUERRA
CHE SOGNAVA GENGIS KHAN

Pietrangelo Buttafuoco
la Repubblica 01 giugno 2012 — pagina 46 sezione: CULTURA



Il libro di Pozner ricostruisce la vicenda
del barone von Ungern-Sternberg

     Premesso che Ungern Khan – il più affascinante tra i soldati in guerra "contro Trockij e contro Cristo" – non è morto ma reincarnato, dichiarato appunto Mahakala da Thubten Gyatso, tredicesimo Dalai Lama; premesso che la sua tomba è puro luogo indifferente alla geografia, dove tra le dure crete di Novonikolaevsk c´è solo la Croce di San Giorgio, la medaglia che inghiottì prima di essere fucilato dai bolscevichi; premesso che ancora oggi vi arrivano gli sciamani per gridare "Urrah, urrah, urrah"; premesso che il suo anello con il segno di Shiva, lo swastika – non la chevalière del lignaggio baltico, ma l´anello del Re del Mondo – gli è stato prelevato il 15 settembre 1921 dal suo carceriere, il generale sovietico Bljucher, e poi, all´epoca della Grandi Purghe, passato nelle mani del maresciallo Zhukov, il vincitore di Stalingrado (fino a venti anni fa ancora in mano alla figlia di quest´ultimo); premesso tutto ciò, il libro di Vladimir Pozner, Il barone sanguinario (Adelphi) è pura mistificazione intorno alla vita e al destino di chi inventò la più abietta delle torture: legare i polsi dei prigionieri con stracci sporchi di sterco di cavallo; supplizio destinato non certo all´olfatto, bensì a produrre vermi che rosicchiavano la carne fino a far staccare, tra atroci tormenti, le mani.
     Premesso tutto ciò, la menzogna non può offendere Roman Nicolaus Fiodorovic von Ungern-Sternberg, signore della guerra, sotto il cui vessillo marciò la divisione di dungani, mongoli, cinesi, giapponesi, karakalpaki, sarti, turkmeni, calmucchi, baschiri, kirghisi, tatari e, naturalmente, russi. Fecero orda, tutti quegli asiatici, riconoscendo in lui l´erede di Gengis Khan «…per poi dedicarsi alla restaurazione della monarchia zarista». Onorarono una storia che Pozner, dalla felice penna, ricostruisce catalogandone gli enigmi, le false piste e i misteri fino a farne un mostro da destinare al folklore.
     Fu a Urga che Ungern liberò il Dalai Lama fatto prigioniero dai cinesi, ristabilendolo sul trono quale prefigurazione del Buddha venturo. Il barone ebbe come appellativi, nell´ordine, "pazzo", "nero" e, appunto, "sanguinario", ma sotto il magnifico mantello di ufficiale imperiale vestì sempre la tunica gialla del lama.
     Come Bram Stoker per Dracula, anche Pozner sottrae vita dalla straordinaria personalità di Ungern Khan per farne un personaggio da destinare all´anatema. E come il conte Vlad Tepes di Valachia, un altro signore della guerra, fu proclamato vampiro da Stoker e perciò macchiato per sempre fino a farne maschera di successo ma pur sempre maschera, così il barone, il "sanguinario", lo sterminatore nemico delle sorti progressive dell´umanità, è il macabro Dracula a noi più vicino. Quando Pozner se ne occupa, infatti, accettando la proposta di scriverne la biografia, studia vicende concluse da appena qualche decennio eppure già soffuse di un´aura leggendaria. Comincia da Parigi, dove interroga tassisti che fanno il baciamano alle signore quando entrano nelle loro vetture, e indossano camicioni da lavoro il cui taglio, impeccabile, rivela un´antica educazione: sono granduchi, principi e generali rifugiatisi in Francia dopo la Rivoluzione d´Ottobre.
     Ci sembra di riconoscerli tra le comparse del film Anastasia, fanno il loro dovere di chaffeur come se il carburatore delle Renault potesse far sentire il tintinnare degli speroni e lo stridere delle sciabole a beneficio di uno stile. E di ogni struggente malinconia, Pozner, giornalista ma anche sceneggiatore, produce effetti in crescendo per costruire una pessima reputazione al suo "personaggio". Lui che ebbe modo di sfogliare album e diari dove capita di trovare in allegato campioni disseccati di flora della Transbajkalia, nega al Barone almeno due capitoli fondamentali: il ruolo sacerdotale che fu predominante e poi ancora i significati legati al sollevamento di un esercito così fortemente asiatico nel momento in cui Mosca diventava capitale del bolscevismo internazionale. È stato più rispettoso Hugo Pratt, che volle mettere il Barone sulla strada di Corto Maltese, di quanto abbia fatto Pozner impegnando il Barone, nella pagine meno plausibili di un libro comunque fantasioso, in una discussione su Albert Einstein con due prigionieri bolscevichi ebrei. È una sorta di gara tra la teoria della relatività e le carte celesti tracciate dai Lama tibetani; ma, a voler essere pignoli, le mappe lamaiste non hanno avuto neppure la smentita da Galileo ma sono cose evidenti nel deserto del Gobi «dove ci sono serpenti che, quando un´ombra si posa su di loro, si slanciano in avanti e riescono a trapassare un cammello e due casse di tè».
     Pozner non accenna al fatto che il barone, erede di una schiatta cui bastava leggere il proprio albero genealogico per conoscere la storia del mondo, non era un convertito ma nato lamaista tibetano, compagno d´arme di mongoli abituati a consumare pasti – nell´era dei monopoli e del capitalismo – in teschi intarsiati d´oro e di argento; non era ovviamente occidentale, europeo e "cristiano" di educazione, e non poté accettare il mutarsi del suo mondo secondo i principi del Terrore, "la giustizia del popolo", che vedeva precipitare nel kali-yuga, ovvero l´età oscura, l´ordine gerarchico della Siberia "bianca" e della Mongolia, già cuore di nitore di uno spazio che si dilata dal Baikal allo Hsing-Kiang e al Tibet, già patria spirituale dell´ineffabile Shambhala, "la terra degli iniziati".
     Pozner, che scrive un libro pensando di liquidare un avventuriero sotto la categoria del "sadico", non considera quanto per Ungern Khan, pur nella consapevolezza della disfatta, fosse di primaria importanza issare lo stendardo di una cultura antica oltre cinquemila anni in contrapposizione col principio opposto, quello fugace e terreno della moderna società materialista.
     Militante comunista, Pozner, nel solco di una celebrazione cui non si sottrae né il cinema sovietico (Ego zovut Suche Batur, diretto nel 1942 da Alelsandr Zarchi e Josif Chejfiz) né la monumentale "Enciclopedia sovietica", fa di questo eroe della Russia bianca una leggenda nera, secondo il noto principio: tanto più grande è il nemico tanto maggiore è il merito nell´averlo sconfitto, specie se a far da coro, nella scena del processo, vengono convocati cinesi e contadini desiderosi di sapere chi fosse mai Don Chisciotte , quel "Don Chisciotte" da destinare alla fucilazione.
     La scrittura di Pozner è sontuosa: le ragazze nei collegi attendono il passaggio dei reggimenti per organizzare i balli mentre i soldati, attardati tra le pagine, battono le mani per il freddo e sembrano applaudire lo scenario dell´inverno ingoiati dalla solitudine.
     Il barone Ungern-Sternberg di Pozner onora i sogni dell´infanzia ed è fratello dei mongoli cui ha dato una direttiva di marcia verso il sole: «Essi non hanno né mura né città e le case se le trascinano ovunque vadano. Inoltre, sono abituati, dal primo all´ultimo, a tirare con l´arco stando a cavallo, non vivono di agricoltura, ma di allevamento, e hanno come unica dimora dei carri coperti: come potrebbero non essere invincibili?».
     Il barone Ungern Khan, nel libro di Pozner, parla con le descrizioni di Erodoto: peccato che in questa biografia manchi la sua ultima notte di libertà nella yurta di Ja Lama, il calmucco nel cui nome "ja" c´è "khalka", ovvero fato, destino, karma. Ma non è precisamente una biografia quella di Pozner, è solo un romanzo. Lui è il Bram Stoker del Comandante della Divisione asiatica di Cavalleria, legittimo erede di Gengis Khan, pellegrino in cammino verso il Re del Mondo.

______________________________
 


5 ottobre 2011

L’ombra cinese sul capitalismo

Mercato e dispotismo non sono soluzioni
Meglio la crescita lenta

Geminello Alvi
IL CAPITALISMO. VERSO L’IDEALE CINESE
Marsilio
pp. 336, € 21

     «I fondamenti di un'economia diversa dal capitalismo, e non anticapitalista, sono il dono, e una minore crescita. Il capitalismo abbisogna della crescita non solo per retribuire col profitto il capitale. L'ossessione della crescita dipende dal fatto che quanto è finto e malvagio, se conosciuto, diminuisce, ecco allora l'urgenza di rinnovarlo senza fine. Il male, se conosciuto, diminuisce; il bene invece conosciuto s'accresce. Ai buoni basta poco».
     Geminello Alvi è un economista in fondo abituato a stupire. Ma la conclusione della sua ultima «fatica» scientifico-letteraria, Il capitalismo. Verso l'ideale cinese (Marsilio), da ieri in libreria, è quasi disarmante, nella sua apparente semplicità. Perché il suo elogio della sobrietà è conseguenza diretta del lungo e complesso cammino che svolge nella trilogia iniziata con Le seduzioni economiche di Faust (Adelphi), proseguita con Il Secolo Americano (Adelphi) e che si conclude qui. In quel riferimento all'uomo buono e frugale che idealmente «supera» il capitalismo o che, sarebbe forse meglio dire in modo quasi ingenuo (dove l'ingenuità è, come la bontà, una forma dell'essenza individuale), «vive diversamente».
     Sarebbe sbagliato leggere il libro come un sistema chiuso. Alvi, che procede per immagini, citazioni, quasi aforismi in una concatenazione che affascina, ma ogni tanto smarrisce, si domanda in sostanza per quali ragioni il capitalismo si manifesti oggi nel suo esito cinese. E il risultato è che in realtà aveva ragione John Stuart Mill quando, nel 1895, scriveva che «l'Europa sta avanzando risolutamente verso l'ideale cinese di rendere simili tutte le persone». Omologazione e statalismo, dunque. Perché «il capitalismo non è riconducibile, come mostrano i paradossi cinesi, alla venalità individuale ma richiede, in dosi crescenti, complicità statali. Consiste d'individualissima invidia, persegue il lusso del superfluo, ma richiede lo Stato in guerra o in stampa di banconote». Produzione costante di superfluo come artificiale percezione della crescita: ecco perché poi la conclusione di Alvi sui fondamenti di un'economia diversa si basa sul dono e su un rallentamento che poi significa il «poco bastante».
     La Cina è dunque l'esito in un circuito di complicità. Lo Stato dispotico ottiene «la crescita a due cifre che meraviglia l'Occidente» perché può «collezionare rapidamente enorme ammontare di capitale e usarlo ad arbitrio». Salva le banche con un costo per il contribuente di 620 miliardi di dollari, pari al 28 per cento del Pil cinese. E solo in apparenza può ricattare Washington grazie alla quantità di titoli di Stato americani nelle sue riserve: questa è «solo la metà di una partita di giro più ipocrita e complicata. Il boom di Wall Street», prima della grande crisi del 2008, «ovvero il capitale fittizio creato dalla politica monetaria insensata di Greenspan, per due settenni di fila ha infatti soccorso di investimenti diretti la Cina». Un «gioco delle parti» che continua e che è vischiosa complicità fra sistemi omologanti. E quanto fosse omologante il capitalismo, sottolinea Alvi, lo aveva già capito Alexis de Tocqueville, quando osservava come i francesi si somigliassero molto di più nel passaggio di una sola generazione.
     Come paradigma dell'omologazione, Alvi cita controcorrente Internet. O meglio, il ragno di Internet: «Per quanto la rete si dia e pretenda solo elogi, la rete rimanda al ragno che la tesse e collosamente vi rigira le vittime che poco alla volta divora. Eppure, miliardi d'ingenui sono deliziati d'essere avvinti nei nessi di questo ragno che, tanto per iniziare, ha già divorato un'alta espressione della parola: la lettera». Ma prima di Internet l'omologazione è passata attraverso l'ipnosi della tv. Risulta che «il 98 per cento degli statunitensi possieda una tv e vi trascorra davanti in media 1.700 ore all'anno. Equivalgono al 58 per cento della vita desta».
     Immagini per descrivere la prigione del camuffamento che cela la sostanziale coerenza dell'esito cinese del capitalismo, cioè dell'economia del superfluo e dell'omologato che ha crescente bisogno dello Stato e della creazione di moneta (e qui sono sorprendenti le pagine sul «vento dell'euro», «che è del Sud-Est e non del Nord» e l'analisi anticipata - perché di un anno fa - della crisi greca). Ma la ricerca di Alvi, nel suo percorso verso la conclusione «sull'economia diversa», non può che diventare etimologica: così il termine capitalismo «venne usato la prima volta da William Makepeace Thackeray: in The Newcomes, romanzo del 1854. Il primo uso fu quello di chi aveva scritto La fiera delle vanità». E la parola economia: Alvi la rintraccia in Omero. «Ogni atto economico nell'Odissea rimanda al pastorale nomòs, cura di un gregge, da parte di un pastore, nomeus. È il pastore ammirato da Omero per la sua generosità, di là di ogni parsimonia, persino in circostanze difficili, come resta a indicare l'agire del pastore Eumeo, per il quale Omero userà appunto il verbo nemo, distribuire».

Sergio Bocconi


______________________________

 

Susanna Peyronel Rambaldi, Marco Frattini
1561 I Valdesi tra resistenza e sterminio
in Piemonte e in Calabria
Società di Studi Valdesi, 2011



La reazione cattolica ai movimenti protestanti in Italia. La resistenza armata nelle Valli valdesi del Piemonte e l’Accordo di Cavour. Il massacro delle colonie valdesi di Calabria.

     La pubblicazione che proponiamo all’attenzione questo mese è un opuscolo di una sessantina di pagine, edito dalla Società di Studi valdesi in occasione del 17 febbraio, data di particolare significato nella comunità valdese perché ricorda l’emancipazione concessa da Carlo Alberto nel 1848. Il fascicolo in oggetto è frutto di una iniziativa di divulgazione storica significativa iniziata nel 1922, proseguita sino ad oggi, che propone annualmente un tema di riflessione, un personaggio, una vicenda, le vicende di una località. Molto spesso l’argomento si connette con una data particolarmente importante della storia. E’ il caso quest’anno in cui ricorre il 450° anniversario di due tragici eventi della storia valdese: la guerra in Piemonte e la strage in Calabria.
     La vicenda si colloca in un momento particolare della storia europea che segue la pace di Cateau Cambrésis nel 1559 con cui si ristabiliva un certo equilibrio fra la Francia di Enrico II e la Spagna di Filippo II uniti dalla necessità di risolvere nei loro rispettivi stati il problema sempre più grave della dissidenza religiosa e la crescente presenza di comunità evangeliche ormai entrate sotto l’influenza della Ginevra calvinista.
     Nei due territori, Piemonte e Calabria, pur con notevoli diversità di situazione geografica e politiche notevolmente diverse, i nuclei valdesi insediati da secoli stanno maturando in quel periodo la stessa consapevolezza ecclesiale, passare da movimento di dissidenza medioevale a comunità organizzate secondo lo schema della nuova ecclesiologia proposta dai Riformatori. Al ministerio clandestino dei loro barba, vanno sostituendo una predicazione pubblica dell’Evangelo affidata a predicatori qualificati, formati a Ginevra; per la chiesa cattolica, il cui dominio è incontrastato in quei territori, si tratta, è evidente, di una sfida intollerabile, ma non meno preoccupante è per i sovrani questa presenza "eretica" che lascia intravvedere prospettive culturali di tipo "repubblicano", sul tipo svizzero, poco conformi al tipo di potere assoluto che essi rivendicano.
     La repressione è dunque inevitabile, iscritta nei fatti. Le truppe di Emanuele Filiberto, rientrato da poco nei suoi Stati, e quelle del viceré di Napoli si muoveranno verso questi borghi dissidenti con le stesse modalità e le stesse tecniche: saccheggio, violenza, distruzione, l’amputazione chirurgica del tumore della libertà.
     Le vicende seguiranno però percorsi opposti e il destino delle due aree sarò diverso. In Calabria Guardia, San Sisto e i borghi vicini conosceranno lo sterminio, di cui sarà simbolo il boia che a Fuscaldo sgozza 88 vittime sulla scalinata della chiesa; in Piemonte la resistenza armata che si concluderà nel giugno del 1561 con la capitolazione di Cavour, dove i valdesi otterranno il diritto di professare in un territorio delimitato delle loro valli il culto riformato.
     I due autori del nostro saggio evocano molto sinteticamente gli avvenimenti, documentati in numerose pubblicazioni coeve, e rievocati in molti volumi successivi; sottolineano invece, utilizzando brevi citazioni di fonti, i problemi che stanno alla base delle vicende. Il clima teologico e culturale (stiamo avviandoci verso la Controriforma), la posizione delle gerarchie cattoliche, l’elaborazione della teologia protestante in fase di ricerca. Rigorosa sin qui sul principio della sottomissione all’autorità politica, si trova ora a dover dare risposta all’interrogativo della libertà religiosa, della scelta fra martirio e rivendicazione della verità evangelica, del carattere contingente del potere civile.
     Vicende esemplari entrambe che, pur nelle dimensioni ridotte all’ambito di una minoranza, ci portano sul piano dei grandi interrogativi del mondo moderno.

a cura di Giorgio Tour



Israel Eugenio Zolli
Il Nazareno : Studi di esegesi neotestamentaria alla luce dell’aramaico e del pensiero rabbinico
Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2009, 1 ed.

Israel Eugenio Zolli

     Rabbino capo a Trieste e a Roma 

     Israel Anton Zoller nacque a Brody, in Galizia (oggi in Ucraina), regione allora parte del multietnico Impero austro-ungarico, da famiglia ebrea polacca benestante che si era tuttavia vista ridurre il proprio tenore di vita a causa della confisca zarista della fabbrica del padre. A 23 anni, nel 1904, si trasferì a Vienna e da lì, nel 1918, a Trieste, appena passata all'Italia. Divenne rabbino capo a Trieste nel 1920, nel periodo in cui insegnava lingua e letteratura ebraica all'Università di Padova. Nella città veneta conobbe e sposò Emma Majonica, dalla quale ebbe la figlia Myriam. A causa dell'italianizzazione forzata imposta dal fascismo, una volta ottenuta la cittadinanza italiana nel 1933 dovette cambiare nome in Italo Zolli.
     Nel 1940 divenne rabbino capo di Roma. Durante l'occupazione tedesca seguita alla caduta di Mussolini (1943), Zolli si adoperò alacremente per garantire la sicurezza degli ebrei romani, nascondendoli o trasferendoli in zone meno pericolose. Il 27 settembre 1943 il colonnello SS Kappler, capo dei servizi di polizia nella Roma occupata, pretese dalla Comunità ebraica la consegna di 50 Chilogrammo d'oro in 24 ore, minacciando la deportazione in Germania in caso di inadempienza. In un tempo tanto breve, la comunità ebraica riuscì a trovarne solo 35. Zolli si sarebbe recato da Pio XII per chiedere aiuto. Questi avrebbe a sua volta dato disposizione che fossero consegnati i 15 kg mancanti, cosa che però non si rese necessaria. [1]. Tale azione venne ricordata, terminata l'occupazione, in una solenne celebrazione nel Tempio Maggiore ebraico di Roma nel luglio 1944, che fu radiotrasmessa, per esprimere pubblicamente la riconoscenza della comunità ebraica a Pio XII, per l'aiuto dato loro durante la persecuzione nazista [2]. L'incontro con Pio XII sarebbe stato determinante per la futura conversione al cattolicesimo del rabbino: nel settembre del 1943, infatti, si dimise dalla carica di rabbino capo, senza addurre motivazioni: la comunità ebraica romana lo propose per direttore del Collegio Rabbinico, ma egli rifiutò. Zolli ritenne papa Pacelli così importante per il suo cammino spirituale che, al momento di ricevere il battesimo cattolico nella Basilica di Santa Maria degli Angeli, scelse il nome di Eugenio Pio.

 La conversione

     Per evitare di essere accusato di viltà e di essersi convertito solo per evitare le persecuzioni riservate ai suoi correligionari, attese il 1945 (13 febbraio) per battezzarsi, sebbene la decisione fosse già matura ed espressa al sacerdote Paolo Dezza il 15 agosto 1944, festa dell'Assunzione. Anche la moglie e la figlia si convertirono: Emma aggiunse al proprio nome quello di Maria, mentre la conversione e il successivo battesimo di Myriam giunsero un anno più tardi.
     La notizia si diffuse rapidamente e le reazioni non mancarono: il settimanale ebraico uscì stampato listato a lutto [3]; alle perplessità sorte nell'ambito della comunità ebraica di Roma in seguito alla conversione del suo ex rabbino capo; si aggiunse un'offerta in denaro, da parte di ebrei americani, purché ritornasse all'ebraismo (offerta che Zolli rifiutò [4]). Non mancò chi ipotizzò che la sua conversione fosse frutto della riconoscenza verso Pio XII, ma Zolli ribadì sempre che il percorso verso il Cattolicesimo era maturato negli anni precedenti, con lo studio delle Scritture e con la meditazione.
     Nel 1945 pubblicò presso l'editrice AVE di Roma il libro Antisemitismo e nel 1946, per gli stessi tipi, Christus, che come disse egli stesso, fu scritto «più con le lacrime che con inchiostro» [5].
     Insegnò all'Università "La Sapienza" e all'Istituto Biblico, concentrandosi in particolare sui rapporti fra ebraismo e cristianesimo: proprio dallo studio del libro di Isaia e dalle profezie ivi contenute avevano avuto inizio le riflessioni che lo portarono alla conversione dall'ebraismo. Nel 1953 si recò all'Università Notre Dame dell'Indiana (USA), dove tenne una serie di conferenze e pubblicò la sua autobiografia Before the dawn (Prima dell'alba).
     Morì il 2 marzo 1956 (il giorno dell'80º compleanno di Pio XII) e fu sepolto nel Cimitero romano di Campo Verano [6].

NOTE

1. Tornielli, Andrea. Pio XII, Il Papa degli Ebrei, Piemme, Casale Monferrato 2001, ISBN 978-88-384-6403-4, p. 278/279
2. Borrelli, Antonio. Eugenio Pio Zolli (Israel Zoller) Rabbino, cattolico convertito. Enciclopedia dei Santi
3. Borrelli, Antonio. Op. cit.4. Borrelli, Antonio. Op. cit.
5. Borrelli, op. cit.
6. Riquadro 45, 1º piano, galleria XIII

(da it.wikipedia.org)
_________________________________


     Pochi sono a conoscenza, anche tra chi si interessa di tradizioni e studi religiosi, che il rabbino capo di Roma degli anni tragici della guerra, Israel Zolli, uno dei principali studiosi europei delle Scrittura e del Talmud, nel 1945 venne battezzato in Santa Maria degli Angeli, prese il nome di Eugenio e divenne cattolico. Egli morì a Roma nel 1956 ignorato da parte cattolica e letteralmente “cancellato” da parte ebraica.

     Solo chi ha avuto la fortuna e l’onore di conoscere personalmente o di leggere gli scritti di Silvano Panunzio poteva saperne di più, in quanto il grande autore ferrarese conobbe ed ebbe come maestro negli studi biblici proprio Eugenio Zolli. Solo pochi anni fa, nel 2002, un libro di Judith Cabaud, ebrea americana divenuta cattolica, tradotto in italiano dal francese e, stranamente, pubblicato dalle edizioni San Paolo con il titolo “Il rabbino che si arrese a Cristo”con prefazione di Vittorio Messori, permise a molti di scoprire questa incredibile storia e questa grande figura di studioso e maestro spirituale.
     Non sorprende il più che sessantennale rigoroso silenzio da parte ebraica, mentre meraviglia non poco quello da parte cattolica e ancor più quello degli storici cosiddetti laici: infatti ne la “Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo”di Renzo De Felice troviamo una clamorosa conferma di ciò; Zolli, pur essendo stato un protagonista del periodo in esame, non viene mai citato, se non in una incidentale nota bibliografica.
     Ma, pur tuttavia, quella di Eugenio Zolli resta tra le più singolari, affascinanti e misteriose vicende che si sia mai potuta immaginare. Il rabbino capo di Roma rifiutò sempre con fermezza di essere considerato un apostata o un “rinnegato”: «La mia», ripeteva, «non è stata una conversione, è stato un arrivo là dove mi portava irresistibilmente lo studio delle profezie messianiche nella Scrittura». Nel 1938, quando era rabbino capo a Trieste, pubblicò un libro, “Il Nazareno”, presso una casa editrice di Udine.
     Quel libro non fu più ristampato, alla pari di altri suoi studi. La meditazione e la preghiera della Scrittura portarono Zolli a leggere la figura di Gesù nella prospettiva stessa del suo popolo, mostrandone la novità, la straordinarietà ed insieme la continuità rispetto a Israele.
     E, pur continuando il suo impegno come capo religioso della sua Comunità, già si sentiva «cristiano proprio perché ebreo coerente, perché israelita sino in fondo». Egli, però, non volle chiedere il battesimo per non abbandonare il suo popolo in anni così drammatici.
     Ma qui entriamo nel mistero; secondo la sua stessa testimonianza e quelle della moglie e della figlia minore fu il Cristo stesso a rivelarsi a lui (e di questo Zolli ne fu sempre certo). Il misterioso episodio avvenne nel settembre del 1944, dopo la occupazione e persecuzione nazista, nel Giorno dell’ Espiazione, a metà, della lunga liturgia dello Yom Kippur, proprio nella grande sinagoga di Roma: al Gran Rabbino, rivestito dei solenni paramenti sacri, apparve Gesù rivestito di una lunga tunica bianca
     “ La sera c’era l’ultima funzione liturgica , ed ero là con due assistenti, uno alla mia destra e uno alla mia sinistra. […] Non sentivo alcuna gioia o dolore: ero svuotato sia di pensieri che di sensazioni. Il mio cuore giaceva come morto nel mio petto . E subito dopo, vidi, con l’occhio della mente un prato stendersi in alto, con erba luminosa ma senza fiori. In questo prato vidi Gesù Cristo vestito con mantello bianco , e oltre il Suo capo il cielo blu. Provai la più grande pace interiore . Se dovessi dare un’immagine dello stato della mia anima in quel momento direi : un limpido lago cristallino tra alte montagne. Dentro il mio cuore trovai le parole: «Tu sei qui per l’ultima volta». Le presi in considerazione con la più grande serenità di spirito e senza alcuna particolare emozione. La replica del mio cuore fu: Così sia, così sarà, così deve essere.
     A Israel non restava che ubbidire, pur consapevole delle pesanti conseguenze. “ Fu alcuni giorni dopo questi fatti che rinunciai al mio incarico in seno alla comunità ebraica […] Trascorse un intervallo di alcune settimane, fino al 13 febbraio (1945 n.d.r.), quando ricevetti il battesimo e venni incorporato nella Chiesa cattolica, il corpo mistico di Gesù Cristo” ( Eugenio Zolli, “Prima dell’alba - Autobiografia autorizzata” ed. San Paolo, Roma, pagg.274-275)
     Quando, a guerra finita, si saprà del suo battesimo, si scatenerà contro di lui una campagna di calunnie e di diffamazioni anche riguardo la sua gestione della Comunità nei mesi tragici dell’occupazione di Roma. Dopo vari tentativi di diffamazione, e pressioni a rientrare (ebrei americani vennero apposta a Roma offrendogli qualsiasi cosa purché ci ripensasse), seguì una vera e propria damnatio memoriae talmente rigorosa che il racconto della sua conversione,“Prima dell’alba”, che fu pubblicato poi negli Stati Uniti, è apparso in Italia solo nel 2004.

Claudio C. Belinfanti - 16/02/2011




Marcia Angell
Farma & Co

Il Saggiatore - settembre 2006
pagine 252
formato: 14x21,5
prezzo € 16,50


È ormai noto e lo si è sentito ripetere negli ultimi anni più volte che gli intrecci fra mercato e salute sono stretti e molto profondi. Marcia Angell, già direttore del New England Journal of Medicine, una delle più prestigiose riviste scientifiche, ha descritto e documentato questo intreccio nel suo libro Farma&Co (Il Saggiatore).
Farmaci di marca e farmaci generici. Farmaci che costano una fortuna. Farmaci che cambiano nome e curano patologie diverse, ma sono esattamente gli stessi. Il Prozac, per esempio, che, colorato di rosso e lavanda, è diventato Sarafem, un rimedio contro la sindrome premestruale a un prezzo tre volte superiore. I farmaci davvero innovativi immessi sul mercato sono sempre meno perché l’obiettivo principale delle aziende è prolungare i brevetti – e gli incassi – di quelli già esistenti. Dagli anni ottanta l’industria farmaceutica è il business più redditizio del mondo, con un fatturato annuo di 400 miliardi di dollari.
Nella catena che dai fondi pubblici per la ricerca arriva fino ai medici e ai pazienti, gli interessi si concentrano nelle mani delle Big Pharma, veri colossi del marketing contemporaneo, raffinate macchine da guerra contro la salute dei cittadini. Ricerche e sperimentazioni truccate, sindromi inventate a tavolino come il «disordine di ansia sociale», lo scandalo dei farmaci anti-Aids negati ai paesi del Sud per non perderne il monopolio, medici comprati con sovvenzioni da favola, modifiche «cosmetiche» a farmaci già esistenti, i cui effetti diventano dubbi, se non addirittura pericolosi...


per leggere il testo in originale vai al link:



TRADUZIONE

Recentemente il senatore repubblicano Charles Grassley, membro della commissione Finanze del Senato, ha avviato una indagine finanziaria sui legami tra l'industria farmaceutica, i medici ed il mondo accademico, che in gran parte influiscono sul prezzo di mercato dei farmaci da prescrizione.
Egli non ha avuto molte difficoltà a trovare riscontri.
Prendiamo il caso del Dr. Joseph L. Biederman, professore di psichiatria presso la Harvard Medical School e direttore dell'Istituto di Psicofarmacologia pediatrica presso il Massachusetts General Hospital di Harvard. A lui si deve in larga misura se a bambini di due anni è stata fatta diagnosi di disturbo bipolare" e se sono stati trattati con un potente cocktail di farmaci, molti dei quali mai approvati per tale patologia dalla Food and Drug Administration (FDA) e nessuno dei quali autorizzato per minori di dieci anni.
Legalmente, i medici possono utilizzare per qualsiasi altra indicazione farmaci già approvati per una particolare indicazione, ma tale uso deve essere basato su una buona evidenza scientifica pubblicata. Non sembra proprio che qui ricorra tale ipotesi. Gli studi di Biederman sui farmaci con i quali si propone di trattare il disturbo bipolare nell'infanzia, sono stati - così il New York Times sintetizza il giudizio degli esperti interpellati - "tanto modesti e così mediocremente concepiti da risultare in larga misura inconcludenti."
Nel mese di giugno, il senatore Grassley ha rivelato che le aziende farmaceutiche, compresi i produttori dei farmaci per l'infanzia che B. prescrive per il disturbo bipolare, hanno pagato 1,6 milioni di dollari a Biederman per consulenze e conferenze tra il 2000 e il 2007. Due suoi colleghi hanno ricevuto somme analoghe. Dopo che la cosa è venuta alla luce, il presidente del Massachusetts General Hospital e il presidente della sua sezione medica hanno inviato una lettera ai medici dell'ospedale invitandoli a non aggravare ulteriormente questi casi di macroscopici conflitti di interessi, ma anche ad esprimere la propria solidarietà a chi ne aveva beneficiato: "Sappiamo che si tratta di un momento di incredibile dolore per i medici e le loro famiglie, e il nostro cuore è con loro"!
Altro caso è quello del Dr. Alan F. Schatzberg, titolare della cattedra di psichiatria del dipartimento di Stanford e presidente eletto della American Psychiatric Association. Il senatore Grassley ha scoperto che Schatzberg ha gestito più di 6 milioni di dollari di prodotti nella Corcept Therapeutics, una società che ha collaborato a fondare e che testa il "Mifepristone" - farmaco abortivo altrimenti noto come RU-486 - da lui impiegato per trattare gli stati depressivi. Allo stesso tempo Schatzberg figura quale principale referente in un "Istituto Nazionale di Salute Mentale", che sovvenziona la ricerca sul Mifepristone per questo impiego, e figura tra gli autori di tre articoli sul tema. In una dichiarazione rilasciata alla fine di giugno, l'ateneo di Stanford dichiarò di non veder nulla di male in questa convenzione, anche se un mese dopo il consiglio universitario annunciò la sostituzione di Schatzberg, quale ricercatore di riferimento, "al fine di eliminare qualsiasi fraintendimento".
Il caso forse più eclatante tra quelli finora esposti dal senatore Grassley è quello del dottor Charles B. Nemeroff, presidente della Emory University-Dipartimento di Psichiatria e, insieme con Schatzberg, coeditore di un rinomato Textbook of Psychopharmacology. Nemeroff è stato il ricercatore di punta, percependo una sovvenzione di 3,95 milioni di dollari in cinque anni dall'Istituto Nazionale di Salute Mentale, 1,35 dei quali destinati alla Emory dalla GlaxoSmithKline a titolo di contributo per lo studio....di diversi farmaci da lei prodotti. Per attenersi ai regolamenti universitari ed alle leggi dello stato, egli era tenuto a comunicare alla Emory quanto percepito da
GlaxoSmithKline, ed a sua volta la Emory doveva informarne, per importi superiori a 10.000 dollari annui, il National Institutes of Health, unitamente all'assicurazione che il risultante conflitto di interessi sarebbe stato eliminato.
Ma il senatore Grassley, confrontando i registri della Emory con i documenti contabili della multinazionale, scoprì che Nemeroff aveva omesso di indicare qualcosa come 500.000 dollari ricevuti da GlaxoSmithKline per decine di conferenze dirette a promuovere i prodotti della società.
Nel giugno 2004 la Emory ha condotto la sua indagine sull'operato di Nemeroff, ed ha riscontrato molteplici violazioni dei suoi regolamenti. Nemeroff ha risposto assicurando la Emory in una nota:
"in considerazione della convenzione National Institutes of Health/Emory/GSK (GlaxoSmithKline), ho già comunicato a GSK (che ne ha già preso buona nota) che limiterò a cifra inferiore ai 10.000 dollari all'anno le mie spettanze per le consulenze fornite". Ma in quell'anno ricevette 171.031 dollari dalla società, nello stesso momento in cui denunciava alla Emory, perché ne desse comunicazione al Nat. Inst. Of Health, un...timido importo di 9.999 dollari, per rimanere sotto alla soglia di 10.000.
Peraltro la Emory è stata destinataria di borse di studio e di altre entrate procurate da Nemeroff, e questo autorizza il sospetto che la sua supervisione lassista sia dipesa dai propri conflitti di interesse. Come riportato da Gardiner Harris sul New York Times, Nemeroff stesso aveva sottolineato i suoi buoni servigi alla Emory in una lettera del 2000 indirizzata al preside della facoltà di medicina, nel corso della quale giustificava così il personale coinvolgimento in una dozzina di accordi per consulenze aziendali......, dicendo:
"Sicuramente lei ricorderà che la Smith-Kline Beecham Pharmaceuticals ha procurato una cattedra importante al dipartimento e che vi è qualche ragionevole probabilità che la Janssen Pharmaceuticals farà altrettanto. Inoltre, la Wyeth-Ayerst Pharmaceuticals ha finanziato un programma di ricerca Career Development Award nel dipartimento, e personalmente ho chiesto sia ad AstraZeneca Pharmaceuticals che alla Bristol-Meyers Squibb di fare altrettanto. Se sarò ricompreso in questo affare, ciò contribuirà a farli decidere per un finanziamento alla nostra facoltà".
Poiché era stato il senatore Grassley a fare il nome di questi psichiatri, a costoro è stata dedicata molta attenzione dalla stampa; ma l'intero mondo della medicina è invaso da analoghi conflitti di interesse. (Per la cronaca il senatore ha rivolto adesso la sua attenzione ai cardiologi). In effetti, la maggior parte dei medici prendono soldi o accettano regali, in un modo o nell'altro, dalle case farmaceutiche. Molti di loro sono pagati in veste di consulenti, o come relatori in congressi sponsorizzati dalle case farmaceutiche, o perché si prestano a mettere il loro nome su lavori scritti dai produttori di farmaci o da loro incaricati, o anche in qualità di apparenti "ricercatori", il cui vero compito spesso consiste semplicemente nell'indirizzare i propri pazienti su un determinato farmaco e nell'informarne la ditta. Sempre più medici beneficiano di pranzi gratuiti e altri di regali veri e propri. Inoltre, le aziende farmaceutiche sovvenzionano i più importanti convegni delle organizzazioni professionali e la maggior parte dei periodici corsi di aggiornamento indispensabili ai medici per mantenere attiva la loro abilitazione all'esercizio della professione.
Nessuno conosce esattamente le cifre complessive pagate dalle ditte farmaceutiche ai medici, ma ritengo, sulla base dei bilanci delle nove più importanti aziende farmaceutiche americane, che si tratti di decine di miliardi di dollari l'anno. Con tali strumenti l'industria farmaceutica ha acquisito il controllo totale sulla valutazione e la prescrizione dei propri prodotti da parte dei medici. Tutto ciò asserve i medici, particolarmente i cattedratici di prestigiose scuole mediche, influenza i risultati della ricerca, la pratica medica e persino la definizione di ciò che costituisce una malattia!
Occorre considerare che gli studi clinici per l'impiego di farmaci vengono testati sull'uomo. Prima che un nuovo farmaco entri in commercio, il produttore deve finanziare studi clinici per dimostrare alla Food and Drug Administration che il farmaco è sicuro ed efficace, solitamente facendo un confronto con un placebo o un "manichino pillola". I risultati di tutte le prove (che possono essere svariate), sono sottoposti alla FDA, e se una o due prove risultano positive - dimostrano cioè efficacia della sostanza senza rilevanti rischi - il farmaco è generalmente autorizzato, anche se tutte le altre prove fossero negative. I farmaci sono autorizzati solo per una specifica indicazione (ad esempio, per trattare il cancro ai polmoni) ed è illegale per le case farmaceutiche commercializzarli per qualsiasi altra indicazione.
Ma i medici possono prescrivere farmaci autorizzati come "off-label", vale a dire, senza riguardo per l'indicazione approvata, di modo che forse la metà di tutte le prescrizioni sono state redatte per indicazioni off-label. Dopo che i farmaci sono sul mercato, le imprese continuano a sponsorizzare studi clinici, a volte per ottenere l'approvazione FDA per ulteriori usi, a volte per dimostrare un vantaggio rispetto ai concorrenti, e spesso solo come pretesto per ottenere che i medici prescrivano questi farmaci ai pazienti. (Tali test sono giustamente chiamati "semina" studi.).
Dal momento che le aziende farmaceutiche non hanno accesso diretto ai pazienti, esse hanno l'esigenza di appoggiare le loro sperimentazioni ad atenei medici, dove i ricercatori ottengono di poter utilizzare, a scopo didattico, pazienti di ospedali e cliniche, o di società private di ricerca (CROs), che attraverso i medici di base arruolano pazienti. Sebbene le CROs siano di solito più efficienti, i finanziatori preferiscono utilizzare le scuole mediche, sia perché la ricerca condotta da queste è formalmente più quotata, ma soprattutto perché consentono loro di sfruttare la grande influenza di medici ritenuti poter rappresentare l'opinione prevalente o essere considerati "key opinion leaders "(KOLs). Sono queste le persone che scrivono libri e articoli su riviste mediche, redigono le "linee guida", occupano posti importanti nella FDA governativa ed in altri gruppi di consulenza, o in rinomate società professionali, e prendono la parola in innumerevoli riunioni e cene che si svolgono ogni anno per ragguagliare i clinici sui farmaci da prescrivere. L'avere un "KOLs" come il Dr. Biederman sul libro paga vale ogni centesimo speso.
Pochi decenni fa, le scuole mediche non disponevano di estesi rapporti finanziari con l'industria, ed i ricercatori universitari che portavano avanti la ricerca finanziata da case farmaceutiche non avevano altri legami con loro. Ma oggi le università hanno molteplici rapporti con l'industria e si trovano in una posizione morale che li metterebbe in difficoltà se volessero rimproverare alla propria facoltà di comportarsi come loro fanno. Un recente sondaggio ha rilevato che circa i due terzi dei centri medici accademici hanno rilevanti partecipazioni nelle aziende che sponsorizzano la ricerca all'interno della stessa istituzione. Una inchiesta sul settore universitario medico ha scoperto che i due terzi dei cattedratici dovevano il loro incarico alle aziende farmaceutiche e che i tre quinti avevano ricevuto da queste incarichi personali. Nel 1980 le facoltà mediche iniziarono a dettare norme che disciplinano i conflitti d'interesse, ma generalmente queste sono assai variabili, il più delle volte molto permissive ed oggetto di disinvolte forzature.
Dato che le aziende farmaceutiche pretendono, come condizione per erogare un finanziamento, di essere capillarmente coinvolte in tutti gli aspetti della ricerca che sponsorizzano, è facile per loro introdurre falsificazioni dirette a far apparire i loro farmaci migliori e più sicuri di quel che sono.
Prima del 1980 veniva data ai ricercatori universitari una totale autonomia nella conduzione dei lavori, ma ora le case farmaceutiche impiegano spesso i loro dipendenti ed i loro agenti nel progettare gli studi, eseguire i test, scrivere i lavori, e decidere se e in quale forma pubblicare i risultati. Talvolta le facoltà mediche procurano ricercatori che sono poco più che manovali, per cui l'arruolamento di pazienti e la raccolta dei dati seguono le direttive dell'azienda.
In considerazione di un controllo simile e dei conflitti di interesse che permeano la ricerca, non c'è da meravigliarsi che i risultati negativi degli studi sponsorizzati dalle case farmaceutiche (e pubblicati su riviste scientifiche a loro tornaconto), non vengano in gran parte resi noti, mentre la pubblicazione di quelli positivi venga riproposta in altri lavori appena variati nella forma; oppure che quelli negativi vengano presentati come positivi. Per fare un esempio, un controllo su 74 studi clinici relativi ad antidepressivi, ha svelato che 37 su 38 risultati positivi siano stati pubblicati, ma dei 36 dei 37 o sono stati occultati o pubblicati spacciandoli per positivi. Non è poi raro che un documento pubblicato focalizzi l'attenzione sull'effetto secondario che sembra più favorevole.
L'occultamento dei risultati fallimentari emersi da ricerche è oggetto di un coinvolgente libro scritto da Alison's Bass, dal titolo "Effetti collaterali: un accusatore, uno che ha fatto la soffiata ed un bestseller, in una ricerca su antidepressivi". Questa è la storia di come il gigante farmaceutico britannico, la GlaxoSmithKline, abbia sepolto prove che il suo antidepressivo, il Paxil, top nelle vendite, è inefficace e potenzialmente dannoso per i bambini e gli adolescenti. Bass, ex reporter del Boston Globe, descrive il coinvolgimento di tre persone: uno scettico psichiatra universitario, un moralmente indignato esponente del reparto di psichiatria della Brown University (il cui presidente ha ricevuto nel 1998 più di $ 500.000 per consulenze da industrie farmaceutiche, tra le quali la GlaxoSmithKline), e un infaticabile sostituto procuratore generale di New York. Hanno preso posizione contro la GlaxoSmithKline ed il sistema psichiatrico, e alla fine l'hanno avuta vinta contro ogni previsione.
Il libro segue le singole lotte di queste tre persone nel corso di molti anni, culminati con la GlaxoSmithKline obbligata, nel 2004, a transare sulle accuse di frode pagando 2,5 milioni di dollari (una sciocchezza rispetto agli oltre 2.700 milioni di vendite annuali del Paxil). Ha inoltre preannunciato di rendere nota una sintesi di tutti gli studi clinici completati dopo il 27 dicembre 2000. Di ancor maggiore rilievo l'attenzione dedicata alla deliberata e sistematica prassi di occultare i risultati sfavorevoli della ricerca, che mai sarebbe emersa senza un'inchiesta giudiziaria. Uno dei documenti interni della GlaxoSmithKline - precedentemente segreto - recita: "sarebbe commercialmente inaccettabile dichiarare che l'efficacia non è stata dimostrata, in quanto ciò potrebbe compromettere il profilo della paroxetina (Paxil)".
Molti farmaci che si pretende siano efficaci, hanno probabilmente un'efficacia leggermente superiore al placebo, ma non c'è modo di appurarlo, visto che i risultati negativi sono tenuti nascosti. Un indizio è stato individuato sei anni fa da quattro ricercatori che, invocando il Freedom of Information Act, hanno ottenuto dalla FDA relazioni su ogni studio clinico - che prevedesse il confronto-pacebo - presentato per ottenere l'approvazione iniziale dei sei più usati farmaci antidepressivi approvati tra il 1987 e il 1999: Prozac, Paxil , Zoloft, Celexa, Serzone e Effexor. Essi hanno scoperto che, in media, l'80 per cento dei placebo hanno la stessa efficacia di questi farmaci.
La differenza tra farmaco e placebo è stata così piccola che era improbabile che essa potesse rivestire un qualche significato clinico. I risultati sono stati più o meno gli stessi per tutti e sei i farmaci: tutti sono risultati egualmente inefficaci. Ma visto che sono stati pubblicati solo i risultati "favorevoli" e quelli sfavorevoli sono stati....sepolti (in questo caso, all'interno della FDA), il pubblico e la professione medica hanno ritenuto questi farmaci potenti antidepressivi.
Le sperimentazioni cliniche sono influenzate anche tramite criteri di ricerca adottati unicamente allo scopo di produrre risultati favorevoli per gli sponsor. Ad esempio, il farmaco del finanziatore può essere confrontato sì con un altro farmaco, ma somministrato a una dose così bassa che quello del finanziatore appare più potente. Oppure un farmaco destinato a patologie dell'anziano può essere testato sui giovani, in modo che gli effetti collaterali abbiano minori probabilità di manifestarsi. La stessa metodica distorsiva utilizzata normalmente nel confrontare un nuovo farmaco con un placebo viene adottata anche quando il confronto riguarda un farmaco preesistente. In breve, ed è questa la ragione fondamentale per la quale i ricercatori devono essere veramente disinteressati nei confronti dei risultati del loro lavoro, spesso è possibile guidare le sperimentazioni cliniche in modo che diano i risultati che si desiderano.
Più della ricerca, sono i conflitti di interesse ad influire sui dati. Essi determinano inoltre gli indirizzi e gli strumenti ai quali si conforma la medicina praticata, attraverso la loro influenza sulle linee-guida rilasciate da organismi governativi e professionali, e attraverso i loro effetti sulle decisioni FDA.
Alcuni esempi: in un sondaggio effettuato presso duecento esperti che hanno redatto linee guida pratiche, un terzo dei membri della giuria ha riconosciuto di avere interessi finanziari in relazione ai farmaci prescelti. Nel 2004, dopo il National Cholesterol Education Program indetto per riportare drasticamente entro livelli desiderati il colesterolo "cattivo", è stato rivelato che otto dei nove membri che avevano redatto il "manifesto" di indicazioni avevano legami finanziari con i produttori di farmaci per abbassare il colesterolo. Novantacinque tra i 170 nominativi che avevano collaborato a redigere la più recente edizione del "Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali" dell'American Psychiatric Association (DSM), avevano intrattenuto relazioni finanziarie con le aziende farmaceutiche, intercorse peraltro con la totalità di coloro che avevano curato le sezioni dedicate ai sui disturbi dell'umore e la schizofrenia. L'aspetto comunque più allarmante è che molti membri delle commissioni permanenti di esperti che offrono consulenza alla FDA per l'approvazione dei farmaci hanno anche legami finanziari con l'industria farmaceutica.
Negli ultimi anni, le aziende farmaceutiche hanno messo a punto una nuova ed estremamente efficace strategia per espandere i loro fatturati. Invece di propagandare farmaci per il trattamento di malattie, hanno iniziato a propagandare le malattie alle quali adattare i loro farmaci! La strategia è quella di convincere quante più persone possibili (insieme ai loro medici, ovviamente) che le loro condizioni di salute richiedono un lungo periodo di terapia. Talvolta chiamato "malattia del cantastorie", questo è il tema di due nuovi libri. Il primo è di Melody Petersen Meds, del nostro quotidiano: "Come le case farmaceutiche hanno trasformato sé stesse in abili macchine da mercato e preso all'amo l'intera nazione in tema di prescrizione di farmaci"; il secondo di Christopher Lane's: "La timidezza: come la si è fatta diventare una malattia".
Per inventare nuove malattie o ingigantire le preesistenti, le aziende affibbiano loro denominazioni altisonanti attraverso acronimi. Così ora il bruciore di stomaco è diventato "sindrome gastroesofagea da reflusso" o GERD; l'impotenza "disfunzione erettile" o DE; la tensione premestruale "sindrome premestruale" o PMMD e la timidezza è "ansia sociale" (ancora non è stata coniata l'abbreviazione). E' bene notare che queste (supposte) malattie sono impropriamente definite sindromi croniche che colpiscono essenzialmente le persone normali, per cui il mercato è enorme e facilmente ampliato. Ad esempio, un alto dirigente della rete di vendite suggerì ai rappresentanti come incentivare l'acquisto del Neurontin: "Neurontin per il dolore, Neurontin per la monoterapia, Neurontin per i disturbi bipolari, Neurontin per tutto." Sembra che la strategia di marketing del farmaco - ed è stato un notevole successo - sia di convincere gli americani che ci sono solo due tipi di persone: quelle che hanno problemi che richiedono un trattamento farmacologico e quelle che ancora non sanno di averne. Queste strategie sono state ideate nel settore del farmaco, ma non avrebbero potuto affermarsi senza la complicità della classe medica.
Melody Petersen, che era un reporter del New York Times, ha scritto un'ampia, convincente requisitoria contro il settore farmaceutico. Essa stabilisce in dettaglio i vari modi, sia legali che illegali, con i quali le aziende farmaceutiche possono realizzare autentici exploit (vendite annuali di farmaci per oltre un miliardo di dollari) e il ruolo essenziale che svolgono i KOLs. Il suo esempio è soprattutto il Neurontin, che è stato inizialmente approvato solo per una indicazione molto limitata, il trattamento dell'epilessia nell'ipotesi che altri farmaci risultassero inefficaci nel controllo degli attacchi. Attraverso bustarelle pagate a nomi eccellenti del mondo accademico per poter mettere i loro nomi sugli articoli esaltando il Neurontin per altri usi (malattia bipolare, stress post-traumatico, insonnia, stanchezza delle gambe, vampate di calore, emicrania, tensione da cefalea, e altre ancora), tramite il finanziamento di conferenze nel corso delle quali venissero raccomandati questi utilizzi, la casa farmaceutica è stata in grado di trasformare il farmaco in un "blockbuster", con un fatturato di $ 2,7 miliardi nel 2003. L'anno seguente, in un caso ampiamente trattato da Petersen per il Times, la Pfizer ha ammesso le proprie responsabilità in ordine alla commercializzazione illegale ed accettato di pagare 430 milioni di dollari per evitare il danno di ulteriori spese comportate da cause penali e civili intentatele. Un sacco di soldi, ma per la Pfizer è stato più o meno come un costo commerciale, e ne è valsa la pena, visto che il Neurontin ha continuato ad essere utilizzato come un tonico per tutti gli usi, generando miliardi di dollari di vendite annuali.
Il libro di Christopher Lane ha messo a fuoco un soggetto più limitato, e cioè il rapido aumento del numero di diagnosi psichiatriche nella popolazione americana e l'uso di psicofarmaci per il loro trattamento. Poiché non vi sono prove oggettive per rilevare la malattia mentale e il confine tra normale e anormale è spesso incerto, la psichiatria costituisce un campo particolarmente fertile per la creazione di nuove malattie o per drammatizzare quelle preesistenti. I criteri diagnostici sono terreno esclusivo dell'attuale edizione del "Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali", prodotto di un gruppo di psichiatri la maggior parte dei quali, come ho già detto in precedenza, avevano legami finanziari con l'industria farmaceutica. Lane, docente di letteratura alla Northwestern University, traccia l'evoluzione del DSM dal suo timido inizio nel 1952, come modesto prontuario (DSM-I), all'attuale formulazione di 943 pagine (la versione riveduta del DSM - IV), che costituisce l'indiscussa "bibbia" della psichiatria, standard di riferimento per i tribunali, le carceri, le scuole, le imprese di assicurazione, il pronto soccorso, i distretti medici e le strutture mediche di ogni genere.
Data la sua importanza, si potrebbe pensare che il DSM rappresenti l'autorevole distillazione di un ampio corpus di prove scientifiche. Ma Lane, utilizzando documenti inediti degli archivi della American Psychiatric Association e interviste con i suoi rappresentanti di spicco, dimostra che è invece il frutto di tutto un complesso di politica accademica, di ambizione personale, di ideologia, e, cosa forse più grave, dell'influenza dell'industria farmaceutica. Quello di cui difetta il DSM è il rigore scientifico. Lane riporta la dichiarazione di un collaboratore del team del DSM-III: "C'è stata una ricerca sistematica molto scarsa, e gran parte della ricerca che esisteva era realmente un pot-pourri slegato, incoerente, e ambiguo. Penso che la maggioranza di noi ha riconosciuto che la quota di quella buona, solida scienza alla quale ci ispiriamo per prendere le nostre decisioni, sia stata piuttosto modesta".
Lane utilizza la timidezza, come caso di indagine sulla "malattia-del cantastorie" in psichiatria. La timidezza come malattia psichiatrica ha fatto il suo debutto come "fobia sociale" nel DSM-III nel 1980, anche se al tempo veniva descritta come rara. Nel 1994, quando il DSM-IV è stato pubblicato, essa era diventata "ansia sociale", ed oggi si sostiene che sia una malattia estremamente diffusa. Secondo Lane, la GlaxoSmithKline, sperando di aumentare le vendite per il suo antidepressivo, il Paxil, ha deciso di promuovere la sindrome da ansietà sociale a "grave condizione medica". Nel 1999, la società ha ricevuto l'approvazione FDA a commercializzare il farmaco per il trattamento....dell'ansia sociale. Essa ha lanciato una vasta campagna mediatica per realizzarlo, ricorrendo anche a poster, esposti nelle pensiline degli autobus di tutto il paese, che raffigurano individui in condizioni pietose, con la didascalia "Immagina di essere allergico alla gente ...": aumentando così le vendite. Ecco un'affermazione fatta da Barry Brand, direttore di produzione del prodotto Paxil: "il sogno di ogni venditore è trovare un mercato non capito o sconosciuto e sfruttarlo. Questo è ciò che siamo stati in grado di fare con la sindrome da ansia sociale".
Alcuni dei più grandi blockbuster sono psicofarmaci. La teoria che i disturbi psichiatrici derivino da uno squilibrio biochimico è usata quale giustificazione per il loro uso diffuso, anche se la teoria deve essere ancora dimostrata. I bambini sono obiettivi particolarmente vulnerabili. Forse che i genitori osano dire "No" quando un medico dice loro che un bambino difficile è malato e raccomanda un trattamento farmacologico? Oggi ci troviamo nel bel mezzo di una presunta epidemia di malattia bipolare nei bambini (che sembra aver rimpiazzato la sindrome da iperattività e da deficit di attenzione come situazione più pubblicizzata nell'infanzia), con un incremento della diagnosi di quaranta volte dal 1994 al 2003. Questi bambini sono spesso trattati con diversi farmaci off-label, molti dei quali, indipendentemente dalle loro proprietà, sono sedativi, e quasi tutti caratterizzati da effetti indesiderati potenzialmente gravi.
I problemi che ho discusso non si limitano alla psichiatria, anche se in questo campo raggiungono la loro più florida estensione. Simili conflitti di interesse e pregiudizi riguardano quasi ogni campo della medicina, in particolare quelli che dipendono in larga misura da farmaci o tecniche terapeutiche. E' semplicemente impossibile dare credito a buona parte della ricerca clinica pubblicata, od alle opinioni del medico di fiducia o ad autorevoli linee-guida. Non mi fa certo piacere arrivare a questa conclusione, formatasi gradualmente e con riluttanza nel corso degli oltre vent'anni come direttore del "The New Journal of Medicine".
Un risultato di pregiudizi diffusi è che i medici imparano a praticare una medicina basata su un uso esasperato di farmaci. Anche se cambiamenti negli stili di vita sarebbero più efficaci, i medici ed i loro pazienti spesso sono convinti che vi sia un farmaco per ogni malattia ed ogni insoddisfazione. I medici sono anche portati a credere che i nuovi e più costosi farmaci di marca siano superiori ai vecchi farmaci o a quelli generici, anche se raramente vi è qualche prova in tal senso, visto che gli sponsor non sono soliti confrontare con i loro altri farmaci a dosaggi equivalenti. Inoltre i medici, influenzati da rinomati docenti universitari, imparano a prescrivere farmaci per uso off-label senza prove di efficacia.
E' facile per le aziende farmaceutiche, che sicuramente ne portano grande responsabilità, muoversi a loro agio in una situazione come questa. La maggior parte delle grandi aziende farmaceutiche si sono sobbarcate gli oneri conseguenti a frodi, commercializzazione farmaci off-label, e altri reati.
TAP Pharmaceuticals, per esempio, nel 2001 si è dichiarata colpevole ed ha accettato di pagare 875 milioni di dollari per sistemare il contenzioso penale e civile sorto dalla lesione della legge federale in seguito all'impiego fraudolento del Lupron, un farmaco usato per il trattamento del cancro alla prostata. Oltre a GlaxoSmithKline, Pfizer e TAP, altre case farmaceutiche si sono accollate gli oneri per transare su simili frodi: come Merck, Eli Lilly, e Abbott. Le ammende, seppure in alcuni casi enormi, sono poca cosa se paragonate ai profitti procurati da tali attività illegali, e quindi non sono niente di più che mezzi dissuasivi. Ancora, quanti sostengono le ragioni dell'industria farmaceutica, sostengono che sta semplicemente cercando di fare realizzare il suo scopo principale, quello di fare gli interessi dei suoi investitori, anche se talvolta va un....po' troppo lontano.
I medici, le università e le organizzazioni professionali non hanno scusanti, avendo una grande colpa verso i pazienti che ripongono fiducia in loro. La missione delle scuole mediche e degli ospedali universitari - e questo giustifica il loro stato di esentasse - è quello di educare le future generazioni di medici, effettuare ricerche importanti per il progresso scientifico e curare i cittadini malati, non quello di allacciare rapporti d'affari con l'industria farmaceutica. Per quanto sia riprovevole la prassi usuale di tante case farmaceutiche, credo che il comportamento di gran parte della professione medica lo sia ancora di più. Le industrie farmaceutiche non sono enti di beneficenza; esse si aspettano un ritorno dal denaro che spendono, ed evidentemente non è per loro indifferente avere utili o meno.
Sarebbero indispensabili riforme così numerose per ripristinare l'integrità della ricerca clinica e della pratica medica, che è impossibile riassumerle in breve. Molti vorrebbero cambiamenti radicali nella legislazione e nell'attività della FDA, compresi gli iter per l'approvazione dei farmaci. Ma vi è anche, ovviamente, la necessità assoluta che la professione medica si affranchi in misura prevalente dai settori economico-finanziari. Sebbene la collaborazione tra industria farmaceutica ed università possa dare importanti contributi scientifici, di solito questi sono apportati dalla ricerca di base, e non dagli studi clinici, ed anche questa sarebbe discutibile se comportasse l'arricchimento personale dei ricercatori. Gli esponenti delle facoltà universitarie che realizzano studi clinici non devono accettare alcuna somma da parte delle aziende farmaceutiche, eccetto il mero sostegno alla ricerca, e questo sostegno non dovrebbe mai essere subordinato all'accettazione di patti aggiunti, inclusa la pretesa dell'industria farmaceutica di avere il controllo sulla progettazione, l'interpretazione e la pubblicazione dei risultati della ricerca.
Le scuole mediche e gli ospedali universitari dovrebbero applicare rigorosamente tale norma, e non dovrebbero stipulare accordi con le aziende sui cui prodotti membri delle loro facoltà stanno conducendo studi. Infine, di rado esiste una valida ragione per la quale i medici dovrebbero accettare doni da aziende farmaceutiche, anche quelle di piccole dimensioni; anzi dovrebbero provvedere autonomamente a pagarsi le spese dei convegni e dei corsi di aggiornamento.
Dopo tanta sfavorevole pubblicità, università e organizzazioni professionali stanno cominciando a parlare di controllo dei conflitti di interesse, ma finora la risposta è stata tiepida. Essi parlano prevalentemente di "potenziali" conflitti di interesse, come se si trattasse di una mera ipotesi lontana dalla realtà, e per giunta limitatamente alla loro divulgazione e "risoluzione", non già del loro divieto. In sostanza, sembra che ci sia il desiderio di eliminare solo l'odore di corruzione, mentre si continua a prendere soldi. Rompendo la dipendenza dall'industria farmaceutica, la classe medica avrà più prerogative sulla designazione di membri di commissioni e su altre importanti funzioni.
Questo rappresenterà la rottura con un modello comportamentale estremamente redditizio. Ma se la professione medica non pone fine a questa corruzione di sua iniziativa, perderà la fiducia del pubblico, e il governo (non solo il senatore Grassley) intensificherà e imporrà una regolamentazione. E nessuno dell'ambiente medico vuole questo.




(da www.corriere.it del 16 febbraio 2011)

Lincoln voleva inviare nei Caraibi
gli ex schiavi neri

Trattò con gli inglesi

Il presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln (1809-1865) proclamò l’emancipazione dei neri


     Il presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln, durante la guerra di secessione, decretò l’emancipazione degli schiavi neri, ma non credeva molto nella prospettiva di una convivenza pacifica e proficua tra diverse razze su un piano di eguaglianza, tanto che progettava il trasferimento di un gran numero di afroamericani nelle vicine colonie inglesi del Belize (chiamato allora Honduras britannico) e della Guyana. Il dato emerge da un saggio che sta per uscire negli Stati Uniti, opera di uno storico inglese, Sebastian Page, e di uno americano, Phillip Magness. Finora si era ritenuto che i progetti coltivati da Lincoln in quel senso non avessero grande respiro e fossero semplicemente una manovra per tenere buona l’opinione pubblica di sentimenti razzisti. Ma i due studiosi, scavando negli archivi, hanno scoperto, soprattutto a Londra, documenti che dimostrano come il presidente abbia continuato a perseguire con determinazione il piano di reinsediamento dei neri anche dopo aver emesso il proclama di emancipazione degli schiavi residenti negli Stati del Sud (1˚gennaio 1863) e fino alla vigilia del suo assassinio (15 aprile 1865). Il libro, intitolato Colonizzazione dopo l’emancipazione (University of Missouri Press), rivela che Lincoln incontrò personalmente alcuni emissari inglesi, tra cui l’armatore John Hodge, operante nei Caraibi, il quale fu da lui autorizzato a reclutare ex schiavi neri per portarli a lavorare nelle piantagioni del Belize. Lo stesso Hodge comunicò all’ambasciatore britannico a Washington che vi era un «sincero desiderio» di Lincoln che il progetto «andasse avanti». Inoltre Magness e Page hanno scoperto un piano per inviare a Panama, dopo la fine della guerra civile, migliaia di soldati neri, che stavano combattendo per il Nord, allo scopo d’impiegarli per scavare quel canale tra il Pacifico e l’Atlantico che sarebbe stato in realtà realizzato soltanto mezzo secolo dopo.
     Va aggiunto che le rivelazioni contenute nel libro sono solo apparentemente clamorose, poiché è ben noto che Lincoln, pur contrario alla schiavitù, aveva a lungo sostenuto la superiorità della razza bianca su quella nera. Inoltre lo stesso Page sottolinea che l’emigrazione degli schiavi liberati doveva svolgersi su base volontaria e nota che il presidente era probabilmente preoccupato per i disordini razziali che erano scoppiati a New York e temeva che la liberazione degli schiavi neri avrebbe potuto provocare una situazione di grave tensione fra le due comunità.
     Di certo le acquisizioni di Magness e Page dimostrano la complessità del contesto politico in cui si arrivò alla liberazione dei neri, in una società nella quale il pregiudizio razziale sarebbe rimasto solido e radicato ancora per moltissimo tempo.

Antonio Carioti





Antonio Socci

Caterina. Diario di un padre nella tempesta

RIZZOLI
(da libreriarizzoli.corriere.it)



La trama

Settembre 2009, Caterina, ventiquattro anni, la figlia maggiore di Antonio Socci, è in coma dopo un arresto cardiaco. Attorno a lei e alla sua famiglia si crea una straordinaria catena di solidarietà e di preghiera, uno spettacolo di fede e amore offerto non solo dagli amici, ma anche dai numerosi lettori del blog di suo padre. Fra di loro molti sono atei e agnostici, eppure l'esperienza di Caterina spinge queste persone a riscoprire il significato e il valore della preghiera, a ritrovare il senso di una fede perduta o lasciata in disparte. Ma sono soprattutto i suoi genitori e gli amici più cari che, giorno dopo giorno, malgrado la durezza della prova a cui sono sottoposti, si affidano con ancora maggior certezza a Gesù Cristo. Il loro è un atto di fede che ottiene presto segni di speranza: il cuore di Caterina riprende a battere da solo e il suo respiro non ha più bisogno di macchine. Di lì a poco, in una sera del gennaio 2010, mentre sua madre le sta leggendo un divertente passo del "Giovane Golden", Caterina si lascia andare a una bellissima e contagiosa risata. Da quel giorno, un po' alla volta, riprende conoscenza e intraprende un faticoso cammino di riabilitazione, sia pure pieno di incognite. In questo diario, Socci ci mostra che con la fede (nella presenza viva di Gesù fra noi) e la preghiera possiamo trovare un aiuto straordinario per superare i momenti più drammatici della vita.



Umberto Eco – Il Cimitero di Praga
Collana: letteratura italiana Bompiani – Pagine: 528
Prezzo: 19,50 euro – Anno prima edizione: 2010
ISBN: 45266225
di Giuseppe Iannozzi 




Lungo il XIX secolo, tra Torino, Palermo e Parigi, troviamo una satanista isterica, un abate che muore due volte, alcuni cadaveri in una fogna parigina, un garibaldino che si chiamava Ippolito Nievo, scomparso in mare nei pressi dello Stromboli, il falso bordereau di Dreyfus per l’ambasciata tedesca, la crescita graduale di quella falsificazione nota come I protocolli dei Savi Anziani di Sion, che ispirerà a Hitler i campi di sterminio, gesuiti che tramano contro i massoni, massoni, carbonari e mazziniani che strangolano i preti con le loro stesse budella, un Garibaldi artritico dalle gambe storte, i piani dei servizi segreti piemontesi, francesi, prussiani e russi, le stragi in una Parigi della Comune dove si mangiano i topi, colpi di pugnale, orrendi e puteolenti ritrovi per criminali che tra i fumi dell’assenzio pianificano esplosioni e rivolte di piazza, barbe finte, falsi notai, testamenti mendaci, confraternite diaboliche e messe nere. Ottimo materiale per un romanzo d’appendice di stile ottocentesco, tra l’altro illustrato come i feuilletons di quel tempo. Ecco di che contentare il peggiore tra i lettori. Tranne un particolare. Eccetto il protagonista, tutti gli altri personaggi di questo romanzo sono realmente esistiti e hanno fatto quello che hanno fatto. E anche il protagonista fa cose che sono state veramente fatte, tranne che ne fa molte, che probabilmente hanno avuto autori diversi. Ma chi lo sa, quando ci si muove tra servizi segreti, agenti doppi, ufficiali felloni ed ecclesiastici peccatori, può accadere di tutto. Anche che l’unico personaggio inventato di questa storia sia il più vero di tutti, e assomigli moltissimo ad altri che sono ancora tra noi.

Umberto Eco è nato ad Alessandria nel 1932; filosofo, medievista, semiologo, massmediologo, ha esordito nella narrativa nel 1980 con Il nome della rosa (Premio Strega 1981), seguito da Il pendolo di Foucault (1988), L’isola del giorno prima (1994), Baudolino (2000) e La misteriosa fiamma della regina Loana (2004). Tra le sue numerose opere di saggistica (accademica e non) si ricordano: Trattato di semiotica generale (1975), I limiti dell’interpretazione (1990), Kant e l’ornitorinco (1997), Dall’albero al labirinto (2007) e, insieme a Jean-Claude Carrière, Non sperate di liberarvi dei libri (2009). Nel 2004 ha curato il volume illustrato Storia della Bellezza, seguito nel 2007 da Storia della Bruttezza e nel 2009 da Vertigine della lista.



(da lafeltrinelli.it)

Piero Buscaroli

Dalla  parte  dei  vinti
MONDADORI


Piero Buscaroli è una delle figure più originali della cultura italiana: importante musicologo e critico musicale, è stato anche giornalista, corrispondente estero e direttore responsabile del quotidiano "Roma", oltre che uomo di cultura a tutto tondo, con una precisa identità politica e ideologica. Ragazzino nella Romagna subito dopo la Liberazione, Buscaroli ha visto la stagione di regolamenti di conti che seguì al crollo del fascismo e che per lui significò l'incarcerazione del padre, morto poi nel 1949 pochi mesi dopo essere uscito di prigione. Da allora, il giovane Buscaroli ha deciso di stare "dalla parte dei vinti", e nella sua vita ha incontrato e conosciuto molte figure "irregolari", molti uomini passati attraverso le tempeste della storia, molte vicende segnate dai drammi del Novecento. In questo libro, a metà tra il giornalismo e la memoria, Buscaroli ripercorre cinquant'anni di personaggi, eventi, luoghi: da Ezra Round a Dino Grandi, dalla Bayreuth di un Wagner rinnegato dai tedeschi alla Cecoslovacchia invasa e spezzata dai sovietici, dall'Italia dei colpi di stato striscianti e dai conti mai fatti col passato a quella dei grandi artisti e dei grandi intellettuali dimenticati (come lo scultore Messina, il latinista Paratore, il pittore Bartolini).



Il sangue del Sud

Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio

Collana: Le scie - Mondadori
Data pubblicazione: Ottobre 2010



In questo libro, ricco di un'avvincente documentazione, Giordano Bruno Guerri rilegge la vicenda del Risorgimento e del brigantaggio come una "antistoria d'Italia": per liberare i fatti dai troppi luoghi comuni della storiografia postrisorgimentale (come la pretesa arretratezza e miseria del Regno delle Due Sicilie al momento della caduta) e per evidenziare invece le conseguenze, purtroppo ancora attualissime, della scelta di affrontare la "questione meridionale" quasi esclusivamente in termini di annessione, tassazione, leva obbligatoria e repressione militare. Il Sud è stato trattato come una colonia da educare e sfruttare, senza mai cercare davvero di capire chi fosse l'"altro" italiano e senza dargli ciò che gli occorreva: lavoro, terre, infrastrutture, una borghesia imprenditoriale, un'economia moderna. Così, le incomprensioni fra le due Italie si sono perpetuate fino ai nostri giorni. Alcuni briganti spiccano per doti - umane e di comando - non comuni, come Carmine Crocco, che per tre anni tenne in scacco l'esercito italiano; e così le brigantesse, donne disposte a tutto per amore e ribellione; altri rientrano più facilmente nel cliché del bandito o dell'avventuriero, ma tutti contribuiscono a dare volti e nomi a una triste e sanguinaria pagina della nostra storia, che si voleva cancellare. "Non si tratta di denigrare il Risorgimento, bensì di metterlo in una luce obiettiva, per recuperarlo - vero e intero - nella coscienza degli italiani di oggi e di domani".



(da Il Giornale del 31 ottobre 2010)
CULTURA
L’antisemitismo fascista?
Era nelle coscienze degli italiani
di Giordano Bruno Guerri

 

Giorgio Israel
    
     Nel suo nuovo saggio - Il fascismo e la razza. La scienza italiana a le politiche razziali del regime (il Mulino, pagg. 444, euro 29) – Giorgio Israel dà la mazzata finale alle residue speranze che gli italiani, nel 1938 e negli anni successivi, non siano stati razzisti. A lungo, e tuttora, si è tentato di spiegare quel razzismo «come una manifestazione dell’odio di classe (...) un “fenomeno secondario” che aveva poco a che vedere con quello nazista, perché il fascismo discriminava, non perseguitava». Prova ne sia, prosegue Israel, che dopo la guerra molti degli «autori dei misfatti razziali e quanti si erano compromessi furono assolti con grande generosità. Furono loro restituite le posizioni di potere di cui avevano goduto negli anni del fascismo». E non solo dal potere democristiano.

     È vero, non abbiamo avuto Auschtwitz, ma «essere cacciati dal posto di lavoro per motivi di razza» non era un gioco di società, come sottolinea Israel. Il quale fornisce una documentazione minuziosa e radicale di come in tutte le attività del regime e del Regno d’Italia, scienziati, burocrati e impiegati, commercianti e militari, gerarchi e intellettuali abbiano applicato – in maggioranza e con tranquilla coscienza - leggi che oggi appaiono inaccettabili.
     Un esempio che mi ha colpito direttamente è quello di Giuseppe Bottai, personaggio che studio da quarant’anni. La prima edizione del mio libro, del 1976, si intitolava Giuseppe Bottai, un fascista critico, perché in quell’epoca un fascista intelligente, fattivo e onesto non poteva che essere «critico»; la seconda, del 1996, si chiamò Giuseppe Bottai, fascista, a testimoniare che un simile, positivo personaggio, poteva anche essere fascista; la terza, che sta per uscire, si chiamerà semplicemente Giuseppe Bottai, perché il gerarca e intellettuale si è ormai conquistato un posto nella storia d’Italia ben al di là del suo essere fascista.
     Insisto su Bottai perché il libro di Israel lo sottopone a una disamina spietata, sottolineandone ogni mossa, come ministro dell’Educazione nazionale, per epurare quanto di ebraico ci fosse nella scuola, nell’università e nella cultura italiana. L’eccellente, ineccepibile lavoro di Israel ha finito per confortare la mia idea sul comportamento di Bottai e degli italiani durante le leggi razziali fasciste. Soprattutto sui motivi profondi – quasi ancestrali - di quel comportamento. Quanto al gerarca fascista sarebbe ancora facile dimostrare quanto l’antisemitismo fosse culturalmente lontano dalla concezione di vita di Bottai: e che la sua visione del mondo non si sposava affatto con le azioni intraprese per quella battaglia. Sarebbe anche facile evidenziare quanto la sua rivista Critica fascista ospitasse le più canzonatorie ironie verso chi auspicava già dalla metà degli anni Trenta l’istituzione di un razzismo italiano. Ma ciò non basta, né è utile una specie di inchiesta difensiva.
      Può essere un attenuante il fatto che lo zelo dimostrato contro gli ebrei dal ministero fosse paradossalmente motivato, anzitutto, dall’efficientismo di Bottai? Varate in estate, le leggi razziali dovevano essere applicate subito per avviare un anno scolastico in regola con le nuove norme. Di certo, la stragrande maggioranza degli intellettuali italiani si allineò alla politica razziale con una solerzia che sfiorò la più ottusa e adulatoria abnegazione; che fu proprio la classe culturale la più pronta a aderirvi con un’acquiescenza che si valeva di appigli ideologici, ancorché variegati e fumosi.
     Lo stesso Israel dimostra che gran parte del mondo scientifico – dall’eugenetica all’antropologia alla demografia – contribuì in modo attivo alla politica razziale, con impegno di studi, teorie e iniziative. Il problema, insomma, investe tutta l’intellettualità e la storia italiana. Inoltre, l’antisemitismo in salsa italiana finiva per contagiare proprio quegli ambienti, ammalati di antiborghesismo a tutti i costi, che attribuivano all’ebreo - più che tare biologiche - le tendenze più spregevoli del conservatorismo sociale e dell’egoistica, parassitaria difesa di ricchezze e privilegi atavici.
     È comunque attribuibile a Bottai la responsabilità di provvedimenti, alcune volte accettati pedissequamente dall’alto altre sollecitati in prima persona. Basti pensare al censimento da lui disposto nel secondo semestre del 1938, per accertare la razza dei membri che popolavano accademie e istituti di cultura. Iniziativa, tanto per cambiare, accolta per lo più con zelante spirito di collaborazione, se è vero che a dissociarsene pubblicamente fu il solo Benedetto Croce. Di questo e di altro, Bottai – a cose fatte – ebbe piena percezione. Lo dice la sua stessa esperienza biografica: quella di un uomo che sentì il bisogno di emendarsi delle sue responsabilità, non mistificandole ma affrontando il doloroso confronto con la sua coscienza. Gli anni della Legione Straniera, dal ’44 al ’48, si spiegano proprio con questo onesto desiderio di un duro lavacro di se stesso.
     Quanto a una storia più generale, è sbagliato credere, come accade spesso, che il regime fascista abbia emanato le leggi razziali per un passivo scimmiottamento della Germania. Certo, l’esempio tedesco servi da stimolo, ma Mussolini aveva – fin dalla nascita del regime – obiettivi precisi, ben prima che anche Hitler conquistasse il potere. Il principale era la trasformazione degli italiani: ovvero farne un popolo guerriero, con un alto senso dello Stato e della collettività, orgoglioso e fiero di sé e del proprio Paese. In questo quadro si inserisce anche la lotta alla borghesia che – se aveva portato il duce al potere – non si dimostrava abbastanza sensibile verso la figura di quell’«italiano nuovo», duro, combattente, che si voleva formare. Proprio nel 1938, lo stesso anno delle leggi razziali, Mussolini comunicò al Consiglio Nazionale del partito di avere «individuato un nemico del nostro regime. Questo nemico ha nome borghesia». In seguito avrebbe dato questa definizione: «Il borghese è quella persona che sta bene ed è vile». Le leggi razziali, più a che perseguitare l’esigua minoranza ebraica, miravano a formare negli italiani uno spirito da razza guerriera, dominante e inflessibile. I giovani furono affascinati soprattutto dalla visione di una nuova cultura in funzione antiborghese che sarebbe nata dal concetto di razza: solo dei “puri” e dei “forti”, infatti potevano permettersi di sentirsi razzialmente superiori. Non furono pochi gli italiani a esercitarsi nell’ignobile arte della denuncia di ebrei; né è consolatorio che lo facessero più per motivi di invidia sociale o di concorrenza commerciale che per vero razzismo.
     Va da sé che tutto ciò non allevia, casomai rende più grave, l’applicazione delle leggi. Né consola che la Chiesa di allora, a differenza di quella di oggi, continuasse a ritenere l’intero popolo ebraico «deicida». Un elemento che contribuì alla passività della legislazione razziale fu l’atteggiamento del Vaticano. A partire dal ’38 molte testate razziste riproposero integralmente vecchi e recenti articoli antisemiti della Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti, e Roberto Farinacci poté dire, in un discorso: «Se, come cattolici, siamo divenuti antisemiti, lo dobbiamo agli insegnamenti che ci furono dati dalla Chiesa durante venti secoli (...) Noi non possiamo nel giro di poche settimane rinunciare a quella coscienza antisemita che la Chiesa ci ha formato lungo i millenni».
     Erano stati i papi, secoli prima a costringere le comunità ebraiche nei ghetti, e obbligarle a portare segni infamanti, a limitare la loro possibilità di guadagno a lavori che avrebbero suscitato disprezzo verso di loro, come il prestito a usura o la raccolta di stracci. Per secoli i papi avevano mantenuto un rito consistente nel dare un pubblico calcio (neanche tanto simbolico) a un rappresentante della comunità ebraica. E solo molti anni dopo le leggi razziali, e il fascismo, è stata eliminata dal messale l’espressione «perfidi giudei».
     La Chiesa si oppose alla politica antiebraica esclusivamente quando ledeva il suo ambito di azione, ovvero quando impedì il matrimonio – cristiano – fra un cattolico e un ebreo. Difese, cioè, i proprio diritti, non quelli dell’essere umano, e tanto meno quelli degli ebrei.
     Conclusione: un razzismo di fondo era sedimentato nella coscienza del popolo italiano.




(da CORRIERE DELLA SERA.it)

ELZEVIRO

Tutti i segreti dell’areopagita
da Bompiani le opere complete di Dionigi


     Chi era Dionigi Areopagita? Forse quel filosofo convertito da San Paolo ad Atene e del quale si parla nel XVII capitolo degli Atti degli Apostoli? Sappiamo che nel 533, durante una disputa a Costantinopoli tra cattolici e monofisiti, il vescovo Ipazio di Efeso contestò l’autenticità dei suoi scritti e la loro presunta datazione in tempi apostolici; anzi, per fugare ogni dubbio, li considerò di mano eretica. Ma poi il commento di Massimo il Confessore, morto nell’agosto 662, ne avallò l’autorità. E la teologia bizantina li accolse.
     La questione uscì dall’ambito orientale nell’827 quando le opere del corpus di Dionigi, contenute in un codice donato dall’imperatore Michele il Balbuziente all’abate Ilduino, giunsero in Occidente. Si pensò, tra l’altro, che l’autore degli scritti fosse il primo vescovo parigino, San Dionigi. Lo stesso Ilduino ne diede una traduzione, seguita da un’altra di Scoto Eriugena, il quale li utilizzò per il suo De divisione naturae. Da quel momento sino agli inizi del pensiero moderno, dunque per non pochi secoli, lo pseudo-Dionigi diventò un’autorità indiscutibile per le questioni sulle gerarchie celesti. A nulla valsero i dubbi di Lorenzo Valla, di parte della teologia protestante, dello storico Michel Le Quien.
     Da poco è uscita in italiano una nuova edizione, ristampata in pochi mesi, di Tutte le opere di Dionigi Areopagita (Bompiani, pp. 828, € 26,50). Si basa sulla traduzione di Piero Scazzoso, che per decenni ne studiò linguaggio e opere. Morto prematuramente nel 1975, il suo lavoro apparve, rivisto da Enzo Bellini, nella collana di filosofia Rusconi nel 1980. Intanto, nel 1990-91, vedeva la luce in due tomi una nuova edizione critica del testo greco presso Walter de Gruyter: impresa formidabile che metteva a disposizione il corpus vagliato sino al dettaglio. Giovanni Reale, partendo da qui, ha dato vita a un Dionigi Areopagita aggiornato e ripensato con le ultime acquisizioni critiche, intervenendo laddove la traduzione, basata su collazioni precedenti, se ne discostava (compito svolto da Ilaria Ramelli). Di più: ha aggiunto anche un saggio del bizantinista Carlo Maria Mazzucchi - uscito per la prima volta in "Aveum" nel 2006 - con una novità, che René Roques aveva accennato a suo tempo: l’autore del Corpus Dionysiacum sarebbe Damascio di Damasco.
     E qui occorre fermarsi un momento e, come si suol dire, prendere fiato. Chi era Damascio di Damasco? Per il lettore italiano non specialista è ancora pressoché sconosciuto. Visse tra il V e il VI secolo della nostra era e nel 529, allorché Giustiniano chiuse la Scuola di Atene, fu uno dei filosofi che si recarono in esilio in Persia, sperando di far rinascere là il neoplatonismo. Pagano convinto, esasperò sino al misticismo la teologia negativa dopo Proclo, arrivando a ipotizzare l’esistenza di un principio ineffabile anteriore all’Uno di Plotino, al quale erano inapplicabili persino le minime qualifiche. Vecchie storie del pensiero - pur ampie come quella di De Ruggiero (Laterza) - lo hanno soltanto citato e occorre arrivare al 1964 per trovarne un primo profilo nel secondo volume de La filosofia antica di Francesco Adorno (Feltrinelli). D’altra parte va aggiunto che all’inizio del XIX secolo il suo nome era già sotto la lente per le molte implicazioni, come dimostra Heinrich Ritter che tra il 1829 e il 1853 pubblica la Geschichte der Philosophie, la sua monumentale storia. In essa, parte prima 13° libro, si occupa, appunto, di Damascio. Traduciamo un passo: «Tutto il suo discorso tende a riprendere per negazione quanto disse affermativamente dei principi delle cose». Un metodo che richiama la teologia negativa, uno dei punti nevralgici del sistema dello pseudo-Dionigi.
     Se volessimo trarre delle conseguenze, dovremo ammettere che testi fondamentali per la teologia cristiana sugli angeli e sull’accostamento mistico a Dio si devono a uno degli ultimi pagani. Reale sottolinea che quanto hanno prodotto le opere dello pseudo-Dionigi non era immaginabile al suo autore; noi, semplicemente, ricordiamo che c’è una storia in buona parte ancora da scrivere: il confronto, e le successive implicazioni durate quasi mezzo millennio, tra paganesimo e cristianesimo.

Armando Torno

16 luglio 2010