"Dal sacro Monte Kailash, nel Transhimalaya, oltre la linea delle piogge, discesi all'estremo del Capo Comorin, dove le acque di tre antichi mari si congiungono. Ed oggi so che in ambo gli estremi vi sono templi". (Miguel Serrano)

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------------------------------------ il quadro della settimana ------------------------------------
------------------------ Edwin Austin Abbey 1852-1911 The Castle of Maidens 1893-1902 ------------------------

poesia

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λόγος


 

 Ein' feste Burg ist unser Gott


Ein feste Burg ist unser Gott,
Ein gute Wehr und Waffen.
Er hilft uns frei aus aller Not,
Die uns jetzt hat betroffen.
Der alt böse Feind,
Mit Ernst er’s jetzt meint.
Groß Macht und viel List
Sein grausam Rüstung ist.
Auf Erd ist nicht seinsgleichen.

Mit unsrer Macht ist nichts getan,
Wir sind gar bald verloren.
Es streit’t für uns der rechte Mann,
Den Gott hat selbst erkoren.
Fragst du, wer der ist?
Er heißt Jesus Christ,
Der Herr Zebaoth,
Und ist kein ander Gott.


Das Feld muß er behalten.

Und wenn die Welt voll Teufel wär
Und wollt uns gar verschlingen,
So fürchten wir uns nicht so sehr,
Es soll uns doch gelingen.
Der Fürst dieser Welt,
Wie saur er sich stellt,
Tut er uns doch nicht.
Das macht, er ist gericht’t.
Ein Wörtlein kann ihn fällen.

Das Wort sie sollen lassen stahn
Und kein’ Dank dazu haben.
Er ist bei uns wohl auf dem Plan
Mit seinem Geist und Gaben.
Nehmen sie den Leib,
Gut, Ehr, Kind und Weib,
Laß fahren dahin.
Sie haben’s kein Gewinn.
Das Reich muß uns doch bleiben.

 

versione italiana


Forte rocca è il nostro Dio


Forte rocca è il nostro Dio,
Nostra speme in Lui si fonda.
Ne sostien benigno e pio,
Nell'angoscia più profonda.
Il tristo tentator,
A noi fa guerra ognor.
Astuzia e frode
Son l'armi sue tremende,
Ma da lor Dio ne difende

È perduto immantinente,
Quei che solo in sé confida.
Per noi pugna un Uom possente,
Che Dio scelse a nostra guida.
Chi sia, domandi tu,
Egli è Cristo Gesù,
Nostro Signore.
Da Lui vigor ne viene,
La vittoria in man Ei tiene.

Se migliaia di demoni,
Ne volessero inghiottire,
Le malefiche legioni,
Non vedranci impallidire.
Con tutti i lor terror,
Si mostrin pure il cuor,
No, non ci trema.
A un detto dell'Eterno,
Fia depresso il re d'inferno.

La parola della vita,
Rispettar dénno i potenti.
Col Suo Spirto Iddio n'aita,
Noi sarem con Lui vincenti.
Se pieni di furor,
Tolgonci figli, onor
Ed ogni bene,
Ne avranno vantaggio lieve
A noi il Regno restar deve.

 
Versione italiana di G. B. Niccolini.
 
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La cultura necessaria
 
Discendenza e Intelligent Design
 di Robert Spaemann
(da magna-carta.it)

     Il biologo Rupert Riedl ha scritto un libro dal titolo Die Spaltung des Weltbildes [La spaccatura nella concezione del mondo]. Riedl intende parlare di due concezioni del mondo, cioè quella delle scienze naturali e quella delle scienze umane. Scopo del suo libro è superare questa spaccatura. Egli intende superarla tramite l’integrazione dell’autocoscienza dell’uomo in una visione biologica che dovrebbe essere in grado di rapportarsi a questa autocoscienza non in modo antitetico, ma inclusivo, cioè spiegandola biologicamente, funzionalmente. La spaccatura nella concezione del mondo non è recente. Il primo a tentare una riflessione sistematica su questo fu Leibniz, il quale, come inventore del calcolo infinitesimale, subito notò che, con l’aiuto di questo metodo, si poteva per la prima volta calcolare il movimento in termini matematici, scomponendolo cioè in una sequenza infinita di stadi stazionari. Essendo anche filosofo, però, egli si rese conto che in questo modo sarebbe andato perso proprio il carattere di movimento del movimento. Fu per questa ragione che Leibniz, nella sua metafisica, introdusse il termine di conatus: una sorta di tendenza, un impulso, per esprimere che ogni corpo in movimento è definito, in ogni istante, dall’anticipazione di uno stadio futuro. Tutti sappiamo per esperienza che cosa questo significhi. Significa “mirare a qualcosa”. Se non partiamo da questa esperienza non possiamo capire cosa sia movimento e siamo costretti a negarlo, come a suo tempo avevano fatto gli eleatici. Leibniz non intendeva superare la spaccatura nella concezione del mondo, la considerava come qualcosa di inevitabile per gli esseri finiti. Parlò, a questo riguardo, dei due regni, del regnum potentiae e del regnum sapientiae. Leibniz non era soltanto uno studioso delle scienze naturali e umane. Era anche filosofo. La filosofia non è una scienza umana, ma il tentativo di capire ciò che sta alla base di questa dualità. Finora tutti i tentativi di integrazione dei due modi di vedere per farli diventare uno solo sono falliti. Restano riduttivi. O le scienze naturali non si sono sentite prese sul serio nella loro pretesa o gli uomini hanno avuto l’impressione che le loro esperienze fondamentali non venissero spiegate, ma spazzate via dalle spiegazioni. Friedrich Schiller, già ai suoi tempi, ammoniva gli studiosi delle scienze naturali e i filosofi: “Ci sia ostilità fra di voi/ per l’alleanza è ancora troppo presto/ solo se nella ricerca vi separate/ la verità sarà conosciuta”. Ho l’impressione che per l’alleanza sia ancora troppo presto, così come probabilmente non sarà mai possibile determinare il luogo e l’impulso di una particella elementare. Ancora più illusorio sarebbe il tentativo di avere in testa la teoria dell’iperciclo e, allo stesso tempo, pensare questa teoria come stato del proprio cervello. Assolutamente assurdo poi è pensare di poter arrivare a dedurre il contenuto di teorie o una equazione matematica dall’osservazione di uno stato cerebrale, in quanto significherebbe dover descrivere questo stesso stato come stato cerebrale. La frase di David Hume “We never do one step beyond ourselves” poteva essere formulata soltanto da uno che invece questo passo l’aveva fatto.
     Che cosa significa questo per la questione relativa alla necessità di completamento del regnum potentiae della teoria darwinistica attraverso un regnum sapientiae nel quale entri in gioco una specie di disegno? È l’interagire di mutazione priva di direzione e selezione che ci spiega chi siamo e come siamo diventati ciò che siamo? E che cosa significa: “spiega”? Quando si può dire che qualcosa sia stato spiegato? Quando l’abbiamo capito? Anche qui ci troviamo davanti a due approcci fondamentalmente diversi. Che cosa capiamo meglio: la vita di una ameba, cioè di un batterio, oppure la vita altamente complessa dell’uomo? Se “capire una cosa” significa “to know what we can do with it when we have it” – come dice Thomas Hobbes –, significa cioè poter ricostruire e simulare questa cosa, allora il batterio è più comprensibile dell’uomo. Normalmente, però, riteniamo di capire meglio che cosa siamo noi piuttosto che cosa sia un batterio. Infatti, noi non potremo mai sapere cosa voglia dire essere un batterio o un pipistrello. Se vedo un pipistrello mangiare suppongo che ha fame. E che cosa significa avere fame per un pipistrello lo posso capire solo in lontana analogia con la mia fame. Certo, la mia fame è una fame consapevole di se stessa – e questo probabilmente non vale per la fame del pipistrello. Ma se divento cosciente della mia fame, essa, come tale, non nasce soltanto nel momento in cui ne prendo coscienza. E questa fame istintiva, in termini di principio, non può essere qualcosa di completamente diverso dalla fame del mio cane che corre alla sua ciotola. Se non ci fosse una qualche somiglianza fra l’uomo e il cane, nessun uomo terrebbe un cane.
La biologia non nega questa somiglianza. La sottolinea. Anche quando parla della vita non parte dal paradigma più alto e direttamente accessibile a noi, e cioè dalla nostra esperienza, ma dai fenomeni più lontani da noi e piuttosto complessi. E questi fenomeni sono considerati capiti quando noi siamo in grado di ricostruirli, ovverosia di simularli.
La simulazione completa sarebbe identica all’originale poiché l’originale stesso non è altro che la sua simulazione. L’esperienza soggettiva della vita come “mirare a qualcosa”, però, è un’aggiunta spiegabile evoluzionisticamente nel suo essere funzionale al sistema. Ma ciò che a questo livello può essere spiegato è comunque sempre soltanto il vantaggio che viene alla selezione dalla soggettività, ma non il nascere di essa. Termini come “folgorazione”, “emergenza”, etc. sono comunque solo termini atti a descrivere l’apparire di qualcosa di nuovo che non si lascia dedurre dal vecchio. Questo qualcosa di nuovo lo possiamo chiamare interiorità, interiorità innanzitutto nella forma dell’istinto.
     Sistemi non viventi non hanno istinto, non mirano a niente. Qualsiasi tendenza dei sistemi non viventi alla preservazione e alla riproduzione viene interpretata da noi osservatori soltanto come tendenza, cioè in base all’analogia con il nostro mirare all’autoconservazione. Un vero “mirare a qualcosa” in sostanza non è oggettivo per l’osservatore, ma è una prima forma di soggettività. Caratteristico dei veri fenomeni teleologici è che in rapporto ad essi esistono sbaglio ed errore. (E qui vorrei contraddire il Cardinale Schönborn che ammette errori soltanto per gli esseri liberi. Quando una lepre nasce con una gamba sola, si tratta di un hamartia tes physeos, un errore della natura, come diceva giustamente Aristotele). La fisica non conosce altri errori che quelli della teoria. Dove però c’è l’istinto comincia la differenza con ciò che è puramente fattuale. C’è il dolore, c’è la frustrazione e lo sbaglio, e c’èpassione, gioia, soddisfazione.
     In modo del tutto generale possiamo dire che c’è il negativo. Ma il negativo non si più costruire a partire dal positivo, dalla fattualità. È vero che possiamo introdurre un segno meno che, esattamente come il segno più è un dato positivo a livello della realtà fattuale. Ma non possiamo dedurre il suo significato da ciò che è fattuale. Nello stesso modo in cui in matematica siamo in grado di produrre il più con l’aiuto del segno meno – meno per meno fa più – più per più fa però sempre di nuovo più. Dobbiamo aver già introdotto il meno per convertire con il suo aiuto il più in meno. Un missile intelligente non mira al suo oggetto, lo fa il suo costruttore. La categoria della teleologia non è deducibile da una realtà ateleologica. È qualcosa di nuovo, in termini di principio. Sostenere, però, come fanno alcuni teorici della scienza, che questo qualcosa di nuovo sia cominciato ad esistere soltanto con la coscienza umana, contraddice la nostra intuizione al limite dell’evidenza. È ovvio che gli animali mirano a qualcosa, anche se non possiamo vedere il loro “mirare a qualcosa” poiché appartiene all’ambito della soggettività. Gli scienziati cartesiani del Seicento negarono coerentemente il dolore negli animali, in quanto ammettevano l’interiorità soltanto come autocoscienza. Spiegazioni teleologiche e spiegazioni causali non sono in concorrenza fra loro. Semplicemente ci fanno capire perché le catene dei nessi causali intervengono in modo tale che il risultato dell’interferenza sia un prodotto sensato. Naturalmente questa interferenza può essere anche un caso. Se prendiamo un sacco con delle lettere, le versiamo per terra ed esse vengono a formare il prologo del Vangelo di Giovanni, può anche essere un caso. Ogni combinazione è possibile e probabile quanto qualsiasi altra. Ma – con tutto il rispetto per il rasoio di Occam – in un caso del genere nessuno crederebbe alla casualità, ma cercherebbe di capire quale sia il trucco. Il trucco nell’evoluzione è la selezione, la quale, con l’aiuto dell’iperciclo, riduce drasticamente l’improbabilità di determinate figurazioni, e cioè quelle che servono alla sopravvivenza e alla diffusione. Ma la selezione può favorire soltanto ciò che già c’è. Essa non è un principio creativo che spiega la formazione di qualcosa di assolutamente nuovo a livello categoriale, e cioè di ciò che, rifacendomi a Hegel, ho chiamato negativo. In effetti, la figurazione del prologo di Giovanni può essere casuale. Ciò vuol dire che può essere indifferente rispetto al significato di questo testo. Questa combinazione di lettere diventa testo soltanto nella testa del lettore. Altro è ciò che riguarda la formazione di un tale senso in base alla quale noi leggiamo questa figurazione come testo. Qui siamo di fronte a un’emancipazione da tutti i presupposti. È evidente, perciò, che l’emergere del senso e del significato, e dunque della vita, è collegato a una certa forma di più elevata complessità della materia. Ma ciò che emerge non è complessità, bensì qualcosa di assolutamente semplice: l’interiorità. La vita non è uno stato della materia ma l’essere di un vivente. Vivere viventibus est esse. E ciò vale in modo ancor più marcato laddove il negativo si manifesta nel pensiero dell’altro come altro, di colui che non solo appartiene solo al mio ambito, ma del cui ambito io faccio parte, e in modo tale che lo so. E vale laddove emerge l’idea di un assoluto che per definizione non è definito in base alla sua funzione nell’ambito della conservazione. E dunque in ambito estetico, morale e religioso. Quando il professor Schuster chiama “bello” ciò che avviene nella natura, usa un predicato che appartiene a un mondo diverso da quello della biologia. Il biologo non si darà pace finché non avrà scoperto la base biologica anche di questo predicato. Ma con tutto ciò non spiegherà il predicato.

Fatemi concludere con due annotazioni:

     Se non vogliamo sacrificare né la scienza né l’umana autocoscienza dobbiamo tener ferma la dualità delle concezioni del mondo. Ci sono presupposti di formazione per la vita, per l’istinto, per la coscienza, per l’autocoscienza. Presupposti di formazione non sono ancora cause. Non ci spiegano chi siamo. L’essere se stessi è emancipazione dai presupposti di formazione. Qualunque tentativo idealistico o materialistico di superare la dualità attraverso la riduzione dell’una all’altra concezione, lascerà insoddisfatta quella delle due che risulterebbe inclusa. Chi intende mantenere ferma l’unità della realtà, senza sacrificare una delle due concezioni, lo può fare solo a patto che faccia entrare in gioco il concetto di creazione secondo il quale il processo della formazione naturale della vita e delle specie viventi, compresa quella umana, si fonda sulla stessa volontà di una sapienza divina che vuole anche il risultato di questo processo, cioè un essere che scopre la sua origine naturale e ringrazia il Creatore per la vita, e dunque per il suo esserci. La stessa Bibbia, che parla della comunità di tutti i viventi, con la quale Dio stabilisce un’alleanza, dice di Dio che Egli stesso vive e che la vita è la luce degli uomini. Che dunque la vita precede la materia e la anima. A chi non vuole o non può fare questo passo resta solo la possibilità di dire con Gottfried Benn: “Mi sono domandato spesso, e non ho trovato risposta, da dove viene la mitezza e la bontà; ancora non lo so, e ora devo andare”.
     La seconda annotazione è questa: le configurazioni materiali possono essere portatrici di informazioni in codice. Informazioni per un essere che può comprendere qualcosa come qualcosa, afferrarne cioè il significato. Il fatto che una informazione in funzione del sistema basti per farci capire il risultato materiale, nella sua formazione, non dice niente a proposito dell’esistenza di un secondo codice che contenga un messaggio del tutto diverso. L’obiezione che il rasoio di Occam ci impedirebbe una tale supposizione in quanto superflua per la spiegazione del risultato, è un’obiezione di poco conto. Un Creatore onnipotente non è sottoposto al rasoio di Occam. Neanche Johann Sebastian Bach era ad esso sottoposto. Alcuni anni fa si è scoperto un doppio codice nella sonata per violino in sol minore di Bach: se si segue un determinato sistema cabalistico, che era conosciuto nella geomanzia dell’epoca barocca, nel quale le note, le lettere e il valore posizionale sono usati in un certo ordine, ne risulta la codificazione del testo seguente: “Ex Deo nascimur, in Christo morimur, per Spiritum Sanctum reviviscimus”. La sonata è una musica meravigliosa. La musicalità della sua configurazione basta per capire perché Bach l’abbia scritta. Chi però, seguendo una leggenda, suppone che vi si potrebbe nascondere qualcos’altro e prova a cercarvi un altro messaggio e sa di Latino si troverà davanti a un’altra impensabile dimensione di questa musica. Per fortuna la ricercatrice non si è fatta intimidire dal rasoio di Occam. Riguardo al nostro tema: a chi è familiare la dimensione dell’assoluto, a chi l’antica leggenda di un Dio Creatore non dà tregua, non farà paura il fatto che le scienze naturali sperino di trovare, e in parte abbiano già trovato, nella funzione di sopravvivenza la causa sufficiente per la formazione delle specie naturali, compresa quella umana. Egli scoprirà dove incontra il buono, il bello, il santo, o dove incontra la pretesa di verità di una teoria scientifica, scoprirà, dico, un messaggio in codice del tutto diverso, che non si lascia ricondurre in nessun modo al primo nonostante che già il primo abbia una sua propria bellezza. Ma da dove proviene il bello e che cosa significa che qualcosa è bello egli lo capirà soltanto con l’aiuto del secondo messaggio.

2007© Libreria Editrice Vaticana
2007© Centro Editoriale Dehoniano EDB
 
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Hegel, maestro di tutti
di Massimo Borghesi
 
Dall’accoglimento irriflesso del pensiero hegeliano sorgono il dualismo fra Chiesa “costantiniana” e Chiesa “carismatica”, tra “Cristo storico” e “Cristo della fede”. Nella filosofia di Hegel si trovano i presupposti dello svuotamento della fede cristiana e la sua trasformazione in gnosi.

     Due note appaiono caratterizzare il pensiero cattolico nel corso degli ultimi trent’anni. La prima, dominata dall’esigenza di superare il “ghetto” cattolico e una sorta di complesso di inferiorità dei cristiani nei confronti del moderno, conclude, rovesciando il giudizio neoscolastico di tipo ottocentesco, nella compiuta identificazione tra cristianesimo e modernità. Il moderno non costituirebbe un periodo di ostilità verso la fede quanto piuttosto un processo di purificazione della medesima dalle scorie derivanti da altre culture, da quella ellenica in particolare, presenti ancora nella cristianità antica e medievale. La storia del pensiero moderno diviene stona dell’attuazione compiuta dell’idea “cristiana” di Dio. La seconda nota, connessa alla prima, deriva dalla persuasione di vivere una stagione ecclesiale che non ha precedenti nella storia, una vera e propria “età dello Spirito” in cui tutti i precedenti modi e categorie di intendere e praticare la fede, legati a un’immagine troppo “sensibile” del divino, decadono a figure passate della storia cristiana. Ambedue queste caratteristiche costituiscono, di fatto, i punti qualificanti che Hegel offre del rapporto tra cristianesimo e modernità nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia. In tal modo, impercettibilmente, una parte rilevante della sensibilità ecclesiale e del pensiero teologico contemporaneo si è ritrovata nell’orbita di colui che Sören Kierkegaard considerava come il massimo responsabile dello svuotamento idealistico della fede cristiana nel corso dell’Ottocento. Per essa il periodo conciliare ha assunto, nell’immaginario teologico — come De Lubac aveva posto in luce nel suo La posterité spirituelle de Joachim de Flore —, i lineamenti di quell’epoca dello Spirito che, lungo la direttrice Hegel-Lessing-Gioacchino da Fiore, costituisce il pléroma del cristianesimo storico, il superamento del cristianesimo “storico”, “carnale”, della mera lettera, in direzione di un Evangelo spirituale, “eterno”, cui viene meno ogni differenza tra divino ed umano, soprannaturale e naturale, cristianesimo e mondo. Ha assunto cioè i caratteri di quella “seconda Riforma” che Hegel presumeva di poter trarre dal processo di secolarizzazione della forma protestante. Sue conseguenze sono, da un lato, una concezione “interioristica” della fede che, rifiutando ogni responsabilità esterna, si risolve nella mera conferma religiosa dell’eticità dello Stato. Dall’altro, una concezione del divenire storico che, rifiutando ogni possibile contaminazione tra le forme particolari e l’interiorità spirituale, termina in un escatologismo per il quale il cristianesimo non può assumere realtà e manifestarsi come evento storico. Come già nell’Illuminismo tedesco si riattualizzano qui «le due principali correnti di pensiero antagonistiche del protocristianesimo, entrambe curiosamente richiamantesi al nome dell’apostolo Giovanni e condensantisi rispettivamente nell’Apocalisse e nel quarto Vangelo: la tendenza chiliastico-apocalittica (di cui appunto nel pensiero moderno si accoglie l’accentuazione del divenire e la tensione verso il futuro, ma non il postulato del “nuovo cielo” e della “nuova terra”, né la prevalenza quasi esclusiva attribuita all’operare di Dio e del Cristo e del loro ministri angelici, né la valutazione prevalentemente negativa della storia profana e dell’impegno umano nella storia) e la tendenza mistico-interiorizzante» (1).
     L’incontro tra queste due linee — interiorismo gnostico ed escatologismo radicale — non costituisce di per se una peculiarità del panorama odierno. Già nel 1931 Erich Przywara, di fronte alla situazione del cristianesimo tedesco protestante a lui contemporaneo, osservava come «il contrasto tra gnosticismo fanatico e un radicalismo escatologico è in modo eminente la situazione di oggi». (2) Secondo Przywara, sotto la duplice influenza del filosofi russi dell’emigrazione da un lato (Chestov, Bulgakoff, Berdiaev) e della teologia trinitaria di Karl Barth dall’altro, si era «formata una filosofia e religiosità “pneumatologica” che ha la sua punta particolare in ciò, che “la libertà del pensare e vivere nello Spirito Santo” è contrapposta all’“esteriorità legale” della Chiesa. Questo è quasi letteralmente lo stesso di ciò che dice Hegel contro il cattolicesimo nella Filosofia della storia» (3). Questo risultato, come già nella scuola hegeliana, vede il sorgere di una dialettica tra una “destra” idealistica e una “sinistra” realistica. «Contro il cristianesimo dello “Pneuma” si solleva un cristianesimo della “realtà”, il quale esige che la Chiesa si incanali pienamente nel ritmo dei movimenti sociali ed economici che via via si presentano, sicché la versatilità dell’accordarsi col movimento oscillatorio della vita del mondo vale infine come il regno della Grazia». (4) È quanto accadeva nella “religiosità della realtà” di Friedrich Gogarten o nel socialismo come religione di Paul Tillich. In tal modo, a giudizio di Przywara, «la situazione della Riforma è giunta oggi al culmine, in ciò, che nel contrasto tra gnosticismo pneumatico e realismo socialistico gli elementi fondamentali di ciò che è Riforma sono disgiunti tra di loro: misticismo sfrenato e rivoluzione sociale. Se già Lutero si trovò impotente di fronte a queste due forze, oggi la situazione è definitivamente disperata. Sètte o socialismo sono gli eredi delle chiese territoriali. In ciò l’ombra di Hegel sta misteriosamente grande dietro a tutti» (5). A questo processo disgregatore si opponeva, secondo Przywara, «solo il cattolicesimo se il cattolicesimo tedesco non si lascia abbagliare dal nuovo hegelianismo» (6).
     Ora rispetto alla situazione degli anni Trenta si può osservare come, al di là dell’auspicio di Przywara, il fascino di Hegel si sia imposto non solo nell’ambito protestante ma anche in quello cattolico. Lo spirito del tempo, a partire dall’ottimismo planetario degli anni Sessanta e dall’utopismo rivoluzionario del post-Sessantotto, ha senz’altro favorito, nell’identificazione della storia con il “divenire di Dio”, l’assimilazione del quadro hegeliano. Il dualismo tra il cristianesimo dello “Pneuma” e il cristianesimo delle “realtà terrestri” identificate con il Regno di Dio ha così attraversato e segnato la storia del cattolicesimo negli ultimi decenni. Così come, in parallelo, il dualismo tra Spirito e istituzione, Chiesa “costantiniana” e Chiesa “carismatica”, ecc. In questa contrapposizione, dominata dalla persuasione di vivere un’epoca nuova, senza precedenti, non solo la Chiesa “antica” appare come premessa della “nuova Chiesa” ma lo stesso Cristo diviene il “Messia dello Spirito”. Come in Gioacchino da Fiore e, poi, nella sua versione secolarizzata in Hegel, il tempo neotestamentario viene a suddividersi in due ère: il tempo di Cristo e quello dello Spirito. Il primo legato alla figura sensibile e storica di Cristo, costituisce l’introduzione al secondo. Il cristianesimo in quanto fede storica diviene il vestibolo, la premessa del cristianesimo eterno, metafisico, il cui tempio è l’interiorità dello spirito. Dal punto di vista teologico questa riduzione è stata favorita tanto dalla “cristologia trascendentale” di derivazione kantiana (Joseph Maréchal, Karl Rahner), quanto, in sede esegetica, dall’uso irriflesso del metodo storico-critico lungo la traiettoria Reimarus-Hegel-Strauss-Bultmann. Per la prima posizione ciò che è determinante, nella fede, non è il Cristo storico, reale, bensì la sua idea che, eterna, e presente nel nostro animo al di là delle sue esemplificazioni storiche. Come già scriveva Kant: «Nella manifestazione fenomenica dell’uomo-Dio il vero e proprio oggetto della fede santificante non è ciò che di esso risulta ai nostri sensi o che può essere conosciuto mediante l’esperienza, bensì il modello ideale insito nella nostra ragione e che noi poniamo a base di tale manifestazione fenomenica». (7) L’Idea Christi è eterna, non è legata a esemplificazioni storiche. «Come idea il Cristo deve essere cercato non fuori di noi, ma dentro di noi e la sua figura storica ne è l’illustrazione che deve servirci da esempio». (8) Per Kant «anche se fosse possibile ed effettivamente si desse un “Cristo storico”, la sua funzione non potrebbe quindi che essere ricondotta a occasione per risvegliare in noi quella sua figura ideale da sempre presente nella nostra ragione e a cui soltanto noi dobbiamo rifarci in modo decisivo». (9) Coerentemente a questa prospettiva l’idealista Fichte potrà scrivere: «Soltanto ciò che è metafisico e non la dimensione storica rende beato; la seconda arreca soltanto erudizione. Se qualcuno si è realmente unito a Dio ed è entrato in lui, è del tutto indifferente per quale via vi sia giunto». (10) In ciò seguito da Hegel, per il quale «alla fede non importa l’accadere sensibile ma ciò che accade eternamente». (11) Conclusione questa che, nel negare ogni rilevanza alla fattualità e ai segni sensibili mediante cui il cristianesimo diviene evento, occasione di incontro, trova il suo epilogo nella teoria del “cristianesimo anonimo” di Karl Rahner che sanziona, di fatto, l’irrilevanza della Chiesa ai fini della salvezza.
     Per quanto riguarda il metodo storico-critico, anch’esso, nella misura in cui non è consapevole della sua genesi e delle sue premesse filosofiche maturate nel contesto dell’Aufklärung, rischia, paradossalmente, di dissolvere proprio quel “Cristo storico” che pure dovrebbe garantire. Nel postulato, acriticamente accolto, per cui il vero Cristo storico sta “al di là” del Cristo della fede, la fede, separata dal suo oggetto, diviene, idealisticamente, il luogo della produzione del suo contenuto: l’Uomo-Dio. In tal modo non la realtà del Cristo storico, nella sua vicenda di vita-morte-risurrezione e nei segni e miracoli che l’accompagnano, è condizione genetica della fede, della credenza in Lui, bensì, all’inverso, è per la fede che Gesù di Nazareth “appare” come il Dio dei cristiani. In questa inversione, per cui la fede invece di essere fondata sull’oggetto, sulla tradizione ecclesiale che dipende dai testimoni oculari, fonda essa stessa l’oggetto, il cristianesimo entra inevitabilmente nell’orbita hegeliana. È nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia che, seguendo Reimarus e Lessing, Hegel vuol mostrare il processo di idealizzazione dell’Uomo-Dio ad opera della Chiesa primitiva. Qui, come osserva Xavier Tilliette, «la divinità dell’uomo Gesù Cristo rischia di risultare da un husteron proteron; la comunità lo ha dichiarato Dio, e non Lui ha fondato, istruito e illuminato la Chiesa». (12) Il Gesù storico non coincide con il Cristo della fede. È solo la fede, la coscienza “religiosa” che a posteriori crea questa coincidenza. «Il Cristo» scrive Tilliette «considerato nella sua comunità, è oggetto di fede, e tale fede porta all’identità del Figlio di Dio con l’individuo storico Gesù di Nazareth. Noi non conosciamo più il Cristo secondo la carne: questa potrebbe essere l’insegna della cristologia hegeliana. In effetti la fede della comunità trasfigura, trasforma, quest’individuo singolare. La Chiesa decreta che egli è il Figlio di Dio». (13) Lo può fare perché, nella concezione hegeliana, non la fede “esteriore” è determinante, la fede nel Cristo “storico”, bensì la fede interiore la quale dipende dalla coscienza del “Dio” in noi, dell’Assoluto immanente al nostro spirito. Il Cristo Storico non è che l’occasione onde possa emergere nell’animo l’idea del divino, del Cristo ideale, eterno, da sempre presente in forma latente nella nostra mente. In questo senso «la fede esteriore deve dunque essere considerata solo come un mezzo per giungere alla vera fede; in quanto esteriore e sottomessa alla contingenza e lo spirito raggiunge la sua verità non secondo la contingenza, ma secondo la libera testimonianza». (14) La fede interiore supera così la fede esteriore. «Questa prima conferma è un modo esteriore, accidentale, della fede. La fede vera e propria è spirituale, è nello spirito; essa ha per suo fondamento la verità dell’idea». (15) Per Hegel, quindi, «la fede non riposa sull’autorità, su ciò che è stato visto, inteso, bensì sulla natura dello spirito eterno e sostanziale, la quale è giunta a coscienza». (16) Ciò implica, coerentemente, la negazione del valore ostensivo dei segni, dei miracoli, dacché «la fede riposa sulla testimonianza dello spirito non sui miracoli, bensì sulla verità assoluta, sull’idea eterna». (17) I segni “esteriori” appartengono all’“età del Figlio”, al cattolicesimo medievale. Essi perdono di importanza nel cristianesimo moderno, post-riformato, nell’età dello Spirito, dove ormai, al di là dell’unico mediatore, «ognuno ha da compiere in se stesso l’opera della riconciliazione». (18)
Nell’interpretazione idealistica del cristianesimo la realtà del contenuto cristiano, la sua presenza sensibile nell’ambito spazio-temporale, il suo essere un avvenimento che si manifesta eminentemente tramite il volto concreto della Chiesa, viene così negata e risolta nell’universale religioso. La conseguenza è che «la figura di Cristo interessa unicamente come figura, come struttura significante ultimamente intellegibile. Non il quis ma il quid di Cristo viene considerato in questa cristologia; il suo essere personale, storico, irrisolvibile, se non è negato, non è neanche decisivo». (19) In questa obliterazione viene meno tanto il cristianesimo come evento quanto, corrispondentemente, la possibilità di “sperimentare” a partire dalle esigenze oggettive dell’umana natura, la verità di tale fatto.
     Ciò che rimane è una sorta di sublimazione religiosa dell’io che risolve, gnosticamente e simbolicamente, il contenuto concreto della fede quale cifra della propria autoesperienza interna sia essa mistica o sentimentale. In questo vuoto, per cui viene meno l’elemento proprio del cattolicesimo — il suo manifestare la presenza sensibile e attuale del Mistero divino — prende corpo la dialettica tra cristianesimo “pneumatico”, gnostico, e radicalismo escatologico. Se così è merita di essere evidenziata in tutta la sua rilevanza l’annotazione di Peter Henrici secondo cui, in Hegel e nel pensiero idealistico, «tale svuotamento dell’essere storico a favore di una mera struttura significante sembra più temibile — perché più congeniale al discorso filosofico — che non l’altra eresia, forse più propriamente teologica, che nega alla Persona di Gesù la natura divina». (20)

Note

(1) G. Cunico, Da Lessing a Kant. La storia in prospettiva escatologica, Genova 1992, p. 56.
(2) E. Przywara, Der Hegelianisrnus in Deutschland, in Rivista di Filosofia Neoscolastica, supplemento speciale al vol. XXIII, dicembre 1931, tr. it., Lo hegelianismo in Germania, p. 328.
(3) Ivi.
(4) Op. cit., p. 332.
(5) Op. cit., p. 333.
(6) Ivi.
(7) I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, tr. it., in I. Kant, Scritti morali, Torino 1970, p. 446.
(8) G. Riconda, Presentazione, in I. Kant, Scritti di filosofia della religione, Milano 1989, p. 20.
(9) G. Ferretti, Immanuel Kant. Dal Cristo “ideale” della perfetta moralità al ritorno del Cristo della fede ai “confini” della ragione, in S. Zucal (a cura di), La figura di Cristo nella filosofia contemporanea, Cinisello Balsamo 1993, p. 59.
(10) J. G. Fichte, L’iniziazione alla vita beata ovvero la dottrina della religione, tr. it., in J. G. Fichte, La dottrina della religione, Napoli 1989, p. 320.
(11) G.W.F. Hegel, Propedeutica filosofica, tr. it., Firenze 1977, p. 242.
(12) X. Tilliette, Sulla filosofia idealista, in Filosofia e teologia, 1989, p. 3.
(13) X. Tilliette, Filosofi davanti a Cristo, tr. it., Brescia 1989, p. 163.
(14) G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, tr. it., 2 voll., Bologna 1973, vol. I, p. 283.
(15) Op. cit., vol. II, pp. 388-389.
(16) Op. cit., p. 398.
(17) Op. cit., p. 388.
(18) G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. it., 4 voll., Firenze 1941-1967, vol. IV, p. 150.
(19) P. Henrici, Panlogismo o pancristismo?, in (Autori vari) Il Cristo dei filosofi, Brescia 1976, p. 118.
(20) Op. cit., p. 113.
(da  AA.VV. «Il cristianesimo invisibile. Attualità di antiche eresie», SEI, Roma 1997)