"Dal sacro Monte Kailash, nel Transhimalaya, oltre la linea delle piogge, discesi all'estremo del Capo Comorin, dove le acque di tre antichi mari si congiungono. Ed oggi so che in ambo gli estremi vi sono templi". (Miguel Serrano)

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martedì 31 gennaio 2012

considerazioni di Pasquale Orlando sull'editoriale del 26 gennaio (sarebbe simpatico aprire un dibattito "a più voci" - o, meglio ancora, "a molte voci" - sul tema: noi lo auspichiamo sperando di non restare, come spesso ci accade, delusi...)

     Confesso che l’editoriale del nostro presidente regionale mi ha molto colpito. E’ un editoriale che, a mio avviso, sembra quasi un “amarcord” di Felliniana memoria. Sembra evocare un ricordo, appunto, amaro e con rimpianto, dei bei tempi che furono, sindacalmente parlando.
     Descrive il fallimento del sindacalismo d’antan; quello fatto da cortei duri, con i servizi d’ordine, con i “katanga” e gli eskimo d’ordinanza.
     All’inizio c’era la giusta e sacrosanta lotta per i diritti dei lavoratori, che altro non erano che i diritti civili che i cittadini di altri Paesi avevano da sempre. Mi riferisco al diritto ad un welfare state degno di questo nome, alla difesa del lavoro e dei singoli lavoratori e, in generale, ai diritti della società civile che una predominante cultura conformista e anodina impediva. Tutti questi fattori si sommarono fino a sfociare nel complesso quadro legislativo del diritto del lavoro e delle libertà civili. I “padroni” dell’epoca ( gli stessi di oggi) approfittando, poi, del clima “consociativista” ( patto non scritto fra DC e PCI) hanno venduto allo Stato tutto il vendibile, tenendosi i gioielli di famiglia e scaricando alla collettività le passività. Il tutto a carico della bestia da soma della classe media. Gli odiati “bottegai” che, però, hanno tirato avanti la carretta.
     Il fallimento era già intrinseco nel momento in cui si ottenevano certe vittorie. Lo statuto dei lavoratori mentre, da un lato, ha riconosciuto dei sacrosanti diritti ai lavoratori, dall’altro ha ingessato il mercato del lavoro stesso; non ha saputo coniugare, già all’epoca, l’esigenza della tutela del lavoro con quella di non soffocare il diritto all’intrapresa economica. In una parola ha dilatato dei diritti fino alla negazione di altri che, d’altra parte, erano , e sono, alla base di qualsiasi economia liberale e di mercato come la nostra .Non a caso, infatti, il famoso articolo 18 riguarda solo il 20% delle imprese italiane; il restante 80% sono, guarda caso, al di sotto dei 15 dipendenti.(Chissà perché ?!) Se si vedono le legislazioni delle cosiddette socialdemocrazie europee ( Olanda, Svezia, Danimarca, ecc.)si scopre che tengono in massimo conto la libertà di iniziativa economica che compensano con un welfare state da invidia,; senza per questo venir meno alla difesa dei diritti dei lavoratori. In una parola; massima libertà di iniziativa economica, coniugata con una tutela delle posizioni individuali sotto il profilo del welfare. Indennità di disoccupazione degna di questo nome, tutela dell’istruzione con un sistema scolastico di prim’ordine e gratuito, per tutti, senza distinzione di censo e con incoraggiamento, vero, delle capacità; servizio sanitario gratuito e di eccellenza.
     In Italia non c’è mai stata una vera indennità di disoccupazione; ma la cassa integrazione che lega il lavoratore al destino dell’azienda; nell’illusione di salvare un azienda fuori mercato e i suoi lavoratori, investendo risorse ingenti per rianimare, appunto, dei cadaveri ( altro che fantasmi!). Finchè abbiamo potuto svalutare la nostra lira, compensando con maggior esportazioni le nostre debolezze strutturali, ci è andata bene. Quando siamo entrati nell’Euro, le nostre strutture sociali, di relazioni industriali , del mercato del lavoro e del welfare in generale, si sono scontrate con la realtà nella quale operavano, ed operano, sistemi economici molto più aperti del nostro.
     I sindacati, i partiti politici e la società civile, in generale, non hanno capito , o voluto capire, che ci si doveva adeguare e si sono lasciati tentare dal portare avanti battaglie di retroguardia, antistoriche e antieconomiche che hanno portato, gioco forza, alla loro emarginazione rispetto all’Europa, o almeno rispetto alla parte di essa che , da sempre, ha valorizzato l’iniziativa economica vera, non assistita. Unica eccezione la Francia, da sempre statalista, ma che, per motivi analoghi ai nostri, pur partendo da una posizione economica più vantaggiosa, sta pagando, in questi giorni la sua inadeguatezza.
     Ed ecco che arriva, in Italia, l’omino con il maglione che mette in crisi il sistema sindacale. Meno male che è arrivato l’omino svizzero; altrimenti avremmo avuto un azienda in meno!
     Venendo all’analisi del declino del nostro sindacalismo ( quello medico); le motivazioni sono molteplici.
     Bisogna, però, partire da una considerazione, inconfutabile. Noi , dal 1978 ( anno di istituzione del SSN con la 833), facciamo parte della spesa pubblica e, gioco forza, siamo destinati a seguirne l’evoluzione.
     Il nostro SSN è stata l’unica applicazione del modello Anglosassone di welfare, sia pure limitato alla sanità. Infatti esso parte dalla considerazione che tutti i cittadini debbano avere il diritto all’assistenza sanitaria ( universalità di accesso) e quello alla libertà di scelta del luogo di cura e che, cosa importante, il sistema si alimenta con la fiscalità generale e non più con il pagamento di apposite assicurazioni (mutue).
     Il tallone di Achille di questo sistema è fondamentalmente rappresentato proprio dal sistema di finanziamento che va bene fino a che l’economia cresce. In momenti di crisi economica esso è costretto a fare i conti con le ridotte disponibilità; infatti , derivando esse dalla fiscalità generale, la politica è costretta a fare delle scelte.

In questi momenti di crisi economica, vengono fuori i veri difetti intrinseci di tale sistema; che sono:

1) Conflitto di interessi dello Stato;
2) Autoreferenzialità;
3) Assenza di effettivi controlli.

Il primo punto è determinato dal fatto che lo Stato è, al tempo stesso, programmatore, controllore ed erogatore dei servizi. Siccome lo Stato, vuol dire politica, si capisce il senso di tale osservazione:
Il secondo punto è, anch’esso, figlio del primo. Considerando, appunto, che c’è un conflitto di interesse dello Stato, gli obiettivi e le finalità degli interventi,, sono misurati ed approvati da organismi interni che sono , appunto, autoreferenziali. Non c’è un Autorità indipendente che li giudica, con le evidenti distorsioni che tutti noi vediamo.
Il terzo punto, escluso controlli contabili, è sotto gli occhi di tutti, laddove si considerano l’assenza di controlli sulla effettiva efficacia della spesa in termini di appropriatezza sanitaria degli interventi programmati. Infatti, come accennato sopra, i controlli sono solo di ordine contabile , in ciò esaurendosi, per il legislatore, il controllo di congruenza sulla spesa programmata. Nemmeno si chiedono se , con quei soldi programmati ( e immancabilmente spesi!) si è reso un effettivo servizio ai cittadini in termini di rapporto costo/beneficio.
    
     Questi difetti, sono stati oggetto delle tre riforme ( 502/92, 517/93 e 229/99) che si sono succedute dal 1992. Data importante. Infatti è in quell’anno che viene firmato il famoso trattato di Maastricht che fissava le tappe per la costituzione della moneta comune europea, chiedendo, già da allora, maggior rigore nelle finanze di ogni singolo Paese. Il trattato individuava , anche nel welfare , una campo nel quale fare pulizia in termini economici. In Italia, come detto sopra, di welfare avevamo solo la Sanità. Già allora fonte di sprechi, clientelismo e politicizzazione. Nacquero così le Aziende sanitarie.
     Dopo quasi vent’anni i difetti sono restati gli stessi. Nel frattempo, cosa hanno fatto i sindacati medici? Questa è la domanda alla quale dobbiamo una risposta. Analizzando “freddamente” i fatti dobbiamo distinguere due tipi di atteggiamento.
     Il primo che definiremo “collaborazionista” parte dalla constatazione che il medico è un ingranaggio del sistema che, nell’ottica aziendale, deve produrre salute attenendosi agli obiettivi fissati dal governo. Tanto vale tirar fuori i maggior vantaggi possibili, senza stare a guardare tanto per il sottile cosa si fa. L’importante è non perdere i vantaggi economici.
     Il secondo che definiremo “ costruttivo” parte dal presupposto che il medico è il centro del sistema e, quindi, è giusto essere renumerati per il proprio lavoro , in rapporto alle proprie capacità, in piena autonomia, senza, per questo, comunque chiamarsi fuori dal sistema che, riformato in senso aziendale, richiede competenza, efficienza ed efficacia.
     Fin’ora il primo atteggiamento ha permesso una retribuzione, almeno per la medicina generale, avulsa da obiettivi e da rapporti di efficacia. I medici sono stati renumerati per compiti sempre più burocratico-assistenziali che non hanno mai messo alla prova, sul serio, le capacità professionali, in una comoda routine quotidiana da travet. Il problema è che, con la crisi economica, il livello politico ha messo in discussione questo modello ( collaborazionista) chiedendo conto di quanto si andava operando nel territorio che, improvvisamente, è diventato il posto sul quale programmare gli interventi, nel tentativo di ridurre il peso preponderante degli investimenti nelle costosissime strutture ospedaliere. Da qui, la spinta maggiore sulla privatizzazione del contratto e la divisione, famosa, della retribuzione nel 70 – 30; introducendo, per la prima volta, dei meccanismi di retribuzione ad obiettivi.
     Il secondo atteggiamento ( costruttivo) che ha visto, da sempre ,lo SNAMI quale fautore; difficile da seguire, perché impegnativo per i colleghi e, perché, difende la dignità professionale del medico, ritenuto, a ragione, il centro del sistema, adesso sta emergendo e, proprio, quando un impostazione costruttiva potrebbe essere l’arma vincente, assistiamo ad una sorte di “depressione collettiva” che rende i colleghi refrattari a qualsiasi forma di proposizione attiva e cosciente.
     Eppure Anzalone ci ha insegnato proprio questo. Mettere in discussione se stessi per essere valutati per la propria capacità professionale.
     Ovviamente le proprie capacità si misurano con l’inserimento del medico nel sistema nel quale lavora, premiandone la professionalità, senza dimenticare lo scopo del SSN.
     Non vedo, quindi, alcuna contraddizione fra l’insegnamento di Anzalone e il voler elaborare modelli che permettano alla Medicina Generale di riappropriarsi del territorio. Altrimenti siamo destinati alla marginalizzazione.
     I modelli che i vari Stati, meglio varie realtà regionali europee, stanno adottando puntano tutti sulla valorizzazione del territorio, in un ottica di valutazione costo/beneficio, abbattendo il tabù del divieto di competizione fra pubblico e privato, purchè ciò porti all’efficienza degli interventi sanitari, senza mettere in discussione l’universalità dell’accesso al sistema e la libertà della scelta del luogo di cura.
     Questi modelli vedono, per esempio in Italia, la Lombardia e la Toscana, rispettivamente con i CREG e il Cronical Care Model, dei primi tentativi di razionalizzare l’assistenza alle cronicità. La tragedia è che questi modelli vedono la medicina Generale fuori da questa programmazione! E’ sintomatico che, invece di valorizzare la medicina generale, le regioni la saltano completamente. Probabilmente, oltre che da considerazioni banalmente politiche, la medicina Generale si è fatta fuori da sola. Essa , seguendo il modello “collaborazionista” si è richiusa nelle costituende AFT e UCCP, dove si punta solo ad improbabili carriere, fine a se stesse e buone solo per i più scaltri. Ovviamente, laddove tali strutturazioni sono partite. Nelle altre realtà vedo un futuro ancora più nero.
     In questi modelli prevale la logica che sarà il cittadino che porterà i finanziamenti alle strutture deputate all’assistenza. Queste strutture, infatti, verranno renumerate con una quota prestabilita, a fronte di determinati compiti ( assistenza ai cronici, per esempio). La quota, ovviamente, rappresenterà una certezza per gli amministratori che, in tal modo, potranno contare, già alla base, su sostanziosi risparmi. Il cittadino poi, farà il resto. Infatti a seconda quale struttura premierà con la sua scelta, determinerà la sopravvivenza, o meno, della struttura stessa. E’, quindi, mantenuto il rispetto dell’universalità e della libera scelta del luogo di cura.
     In altre realtà regionali europee, si è addirittura passati oltre ( Spagna). Abbiamo anche le Cure primarie finanziate con una quota capitaria complessiva. Quindi l’Assistenza Primaria, l’urgenza e la specialistica devono misurarsi con una risposta complessiva ai bisogni sanitari del territorio alle cure primarie, appunto. Questo significa collaborazione fra le figure operanti e presa in carico dell’assistenza sanitaria del territorio che risolva, il più possibile, le problematiche di primo livello sul territorio riducendo il ricorso alle cure ospedaliere. Dai dati, ormai consolidati da circa 5 anni, il servizio funziona e piace alla popolazione ed, anzi, rafforza il rapporto di fiducia medico-paziente. Ovviamente ciò si confronta anche con un notevole risparmio per il SSN, in quanto il finanziamento pro capite ( per abitante /anno del territorio)è predeterminato .
     Queste esperienze, soprattutto la seconda, hanno alla base una sfida. Quella della presa in carico , a livello del territorio, di funzioni che, fino ad ora, erano esclusive degli ospedali. Parlo delle cure delle cronicità medio-complesse, delle urgenze ( codici bianchi e/o verdi), delle prestazioni specialistiche in stretta collaborazione con la Medicina Generale. In una parola la riappropriazione del ruolo centrale della Medicina Generale che non può più ignorare le cresciute esigenze in termini di cure e di approccio alle malattie. Una rivalutazione professionale dei medici di medicina generale che devono mettersi in discussione, giorno per giorno e misurarsi professionalmente.
     Possiamo discutere del come fare “sistema”. Ma non possiamo più ignorare quello che sta succedendo. L’alternativa è il declino della Medicina Generale così come la conosciamo. Se noi “fuggiamo” dal territorio, altre figure, o peggio, organizzazioni, spacchetteranno il nostro lavoro e noi, nella migliore delle ipotesi, finiremo per accentuare di più il nostro lavoro puramente burocratico a servizio,n on del paziente, ma di altro.
     Il nostro sindacato, a mio avviso, deve trovare la strada per far fare “sistema” alla medicina generale, coniugando difesa della professionalità del medico, del rapporto duale medico-paziente e, al contempo, raccogliere la sfida che viene lanciata al territorio. Deve, cioè, identificare una strada sulla quale costruire un idea alternativa alla FIMMG, ma che, al contempo, abbia il coraggio di accettare il rimettersi in discussione professionalmente, al fine di riappropriarci del territorio.
     Su questo noi dobbiamo, a mio parere, discutere al nostro interno. Perché se non costruiamo qualcosa di alternativo ed importante, la nostra militanza sindacale non avrà avuto un fine. Non c’è più spazio per chi tira a campare fino alla pensione; non è questa la mia idea. Anche perché, oltre a fare un cattivo servizio a noi stessi ( almeno per me) lo faremmo ai giovani colleghi ai quali, continuando su tale strada consegneremmo un futuro da sottopagati e paria del SSN.
     Questo significa confrontarsi e dialogare. A volte il dialogo e il raffronto delle idee possono dividere. Del resto il civile confronto è il sale di ogni democrazia. Il “dividersi” sulle idee non significa affatto inseguire i personalismi. I personalismi sono le tattiche fine a se stesse, tese a “conquistare” una posizione solo per dire che la si è raggiunta; sono il non accettare democraticamente ciò che degli organi previsti dallo statuto decidono. Questi sono i personalismi. Lo schierarsi su posizioni ideali rappresenta il sale della democrazia. Piaccia o non piaccia. Il resto è qualunquismo spicciolo.

     L’unanimismo è tipico di altre organizzazioni e di altre realtà sociali.

          Diamoci da fare per elaborare idee e dare risposte.

               Pasquale Orlando